
Siamo giunti alla terza tappa del nostro viaggio intrapreso nelle Beatitudini:
«Beati i miti perché avranno in eredità la terra» (Matteo 5, 5)
Il nostro mondo è pieno di violenze. Quale ultimo esempio basti pensare alla morte di George Floyd, il 46enne afroamericano tenuto immobilizzato da un poliziotto per nove minuti con il ginocchio sul suo collo a Minneapolis negli Stati Uniti d’America.
In realtà sembra che la prepotenza e l’aggressività ci siano state un po’ sempre, a giudicare da quanto racconta la Bibbia sin dalle sue prime pagine.
L’episodio, altamente simbolico, di Caino e Abele ne è una conferma. Caino versò il sangue di suo fratello. Terribile violenza, figlia dell’invidia, a cui seguì poi l’arrogante dichiarazione di una pretesa non-responsabilità nei confronti della vittima: «Sono forse io il guardiano del mio fratello?» (Gn 4, 9).
Nel cuore di ogni essere umano si annida la violenza, e che sulla soglia del suo animo è sempre in agguato la tentazione di sopraffare l’altro, di fargli violenza, o per invidia o per orgoglio o per vendetta. Gli basta un nulla per cadervi.
La nostra realtà di oggi lo conferma. I focolai di guerra esistenti sul pianeta sono decine e decine: popoli interi che soffrono violenza o la infliggono, utilizzando le armi più sofisticate fabbricate dagli interessi meschini di terzi.
Come diceva Santa Caterina da Siena, ciò che Dio diede all’uomo per la vita, egli lo utilizza per la morte…
Ma oltre a queste violenze collettive ce ne sono tante, tantissime altre inflitte o subite singolarmente verso gli esseri umani e verso il creato: bambini che soffrono la violenza degli adulti fino al punto di essere abbandonati, appena nati, tra i rifiuti della strada; donne che subiscono il violento e degradante sfruttamento degli uomini per soddisfare i loro istinti di piacere; famiglie intere, che soffrono la paura e l’insicurezza che crea loro la mafia; anziani che vengono trascurati e messi ai margini della società… Tanta, tanta violenza visibile o invisibile che semina dolore e morte nel mondo.
Davanti a tutto ciò Gesù lancia la sua grande sfida: «Beati i miti, perché erediteranno la terra».
Mite è chi non dà retta al suo istinto di sopraffazione e di vendetta, ma si sforza di rispettare tutti e di vincere il male con il bene. Questo soprattutto: non risponde al male inflittogli con il male, non si vendica, ma è capace di stare al di sopra del male amando sempre e appassionatamente il bene. Anche di quelli che gli fanno del male.

Con frasi alle volte paradossali Gesù ha illustrato il comportamento mite, diametralmente opposto a quello violento. Una delle più incisive è quella del discorso della montagna: «Avete udito che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra» (Mt 5, 38-39). Proponeva così un palese superamento della legge della violenza, già in parte attenuata dalla normativa di Mosé mediante la “legge del taglione” (cfr. Es 21, 23-25). Come sempre, quest’indicazione non va presa alla lettera, ma nel suo spirito. Gesù stesso, infatti, a chi durante il suo processo davanti al sinedrio lo percosse sulla guancia, rispose: «Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?» (Gv 18, 23). Una risposta piena di dignità, ma anche di mitezza, che non si arrende al male, ma lo supera con il bene.
Per essere miti, dobbiamo allora imitare Gesù. La mitezza è il modo concreto con cui Lui vive: «Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime» (Mt 11, 29).
Gesù entra in Gerusalemme mostrandosi mite, seduto su un’asina (cfr. Mt 21, 5). Non si manifesta come un guerriero vittorioso, né come un condottiero che conquista il mondo con la forza, ma come il servo obbediente a Dio e misericordioso verso gli uomini.
Ma la mansuetudine di Gesù non è assenza di forza. Lo vediamo ad esempio quando Egli scaccia i mercanti dal Tempio: lo fa in modo risoluto.
Come in tutte le altre cose anche in questa Gesù è stato coerente fino in fondo con quanto insegnava. Così, nell’imminenza della sua passione, a quel discepolo che per difenderlo sfoderò la spada e tagliò l’orecchio al servo del sommo sacerdote, Egli disse con determinazione: «Rimetti la spada nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada» (Mt 26, 52).
San Pietro a sua volta ricorda l’atteggiamento di Gesù nella Passione: «oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta, ma rimetteva la sua causa a colui che giudica con giustizia» (1 Pt 2, 23). La mitezza di Gesù si vede fortemente nella sua Passione.
Gesù si affida con mitezza totalmente al Padre nella certezza che alla fine avrebbe trionfato la giustizia.
L’apice di questo suo atteggiamento di mitezza lo rivela la preghiera da Lui detta sulla croce in favore di coloro che lo torturavano: «Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno» (Lc 23, 34). Egli sapeva bene di essere vittima di una violenta ingiustizia. Eppure, anziché implorare da Dio un intervento punitivo, che effettuasse giustizia, implora il perdono per i suoi assassini. È così che Egli è diventato Signore, «ereditando la terra» promessa da Dio, ossia la pienezza della vita.

La parola “mite” letteralmente vuol dire dolce, mansueto, gentile, privo di violenza. La mitezza si manifesta nei momenti ostili, è la reazione in una situazione di scontro.
Dall’ebraico “anawim”, che richiama la povertà spirituale e dunque la prima beatitudine. Infatti entrambe sono vicine e complementari. La mitezza evangelica, che nasce appunto dai poveri in spirito, è la totale fiducia e abbandono in Dio, che esclude la collera e la violenza in atti.
Il contrario della mitezza è infatti l’ira.
Il Santo Padre afferma che: «Un momento di collera può distruggere tante cose; si perde il controllo e non si valuta ciò che veramente è importante, e si può rovinare il rapporto con un fratello, talvolta senza rimedio. Per l’ira, tanti fratelli non si parlano più, si allontanano l’uno dall’altro. È il contrario della mitezza. La mitezza raduna, l’ira separa».
Il termine “mite” nella Sacra Scrittura indica anche colui che non ha proprietà terriere. Colpisce dunque che la terza beatitudine affermi proprio che i miti «avranno in eredità la terra».
Ci dice ancora papa Francesco riguardo a questa beatitudine: «Il possesso della terra è l’ambito tipico del conflitto: si combatte spesso per un territorio, per ottenere l’egemonia su una certa zona. Nelle guerre il più forte prevale e conquista altre terre.
Ma guardiamo bene il verbo usato per indicare il possesso dei miti: essi non conquistano la terra; non dice «beati i miti perché conquisteranno la terra». La “ereditano”. Beati i miti perché “erediteranno” la terra. Nelle Scritture il verbo “ereditare” ha un senso ancor più grande. Il Popolo di Dio chiama “eredità” proprio la terra di Israele che è la Terra della Promessa.
Quella terra è una promessa e un dono per il popolo di Dio, e diventa segno di qualcosa di molto più grande di un semplice territorio. C’è una “terra” – permettete il gioco di parole – che è il Cielo, cioè la terra verso cui noi camminiamo: i nuovi cieli e la nuova terra verso cui noi andiamo (cfr Is 65,17; 66,22; 2 Pt 3,13; Ap 21,1)».
Ereditare la terra, dunque significa non tanto avere in possesso la terra geografica-geopolitica, ma piuttosto la terra promessa: «il Cielo, cioè la terra verso cui noi camminiamo: i nuovi cieli e la nuova terra verso cui noi andiamo», ci suggerisce il Pontefice.
Come leggiamo in Apocalisse 21, 1: «Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era più».
Il premio destinato ai miti è quindi quello della vita eterna, che però possiamo già ora vivere attraverso la vita nuova nello Spirito Santo.
Lo Spirito Santo ci conforma a Cristo e ci fa essere discepoli autentici di Gesù. Ci rende donne e uomini nuovi, che vivono nel pieno abbandono a Lui.
La terra che ci viene promessa è anche un’altra e ce lo spiega il Santo Padre: «La “terra” da conquistare con la mitezza è la salvezza di quel fratello di cui parla lo stesso Vangelo di Matteo: «Se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello» (Mt 18, 15). Non c’è terra più bella del cuore altrui, non c’è territorio più bello da guadagnare della pace ritrovata con un fratello. E quella è la terra da ereditare con la mitezza!»

La storia recente ci ha messo davanti agli occhi stupendi esempi di uomini e donne che hanno vissuto intensamente questa beatitudine.
Come non ricordare, per esempio, il paladino della non-violenza nel secolo scorso, Gandhi? Egli fu sempre un uomo mite e predicò costantemente, con la condotta e, con le parole e gli scritti, la mitezza: la libertà non si ottiene scatenando la violenza e la vendetta, ma per vie di resistenza attiva. Fu la sua mitezza ad «ereditare la terra» della sua grande patria, l’India, come terra indipendente e libera. La sua mitezza non fu affatto facile e passiva arrendevolezza, ma operosa non-violenza. Affermava Gandhi: «La non violenza non è mai una rinuncia ad ogni lotta concreta contro l’ingiustizia. Al contrario è una lotta più attiva e più concreta».
Con lui ricordiamo anche altri grandi uomini della storia mondiale, difensori della non-violenza, quali il reverendo Martin Luther King e Nelson Mandela, che è riuscito a sconfiggere l’apartheid.
Nel 1980 in Italia fece molto riflettere, nel mezzo della violenza di quei giorni che falciò la vita di Vittorio Bachelet, giurista e politico italiano, assassinato dalle Brigate Rosse, il giovane figlio che, durante i funerali, dichiarò pubblicamente di perdonare coloro che lo avevano privato dall’affetto e dalla presenza di suo padre, rendendolo violentemente orfano. «Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri».
Causò anche molto scalpore quella coppia di genitori statunitensi che, avendo subito lo strappo violento del loro figlioletto di sette anni, Nicholas Green, ammazzato da una vile pallottola mentre giravano l’Italia, si “vendicarono” donando gli organi del figlio morto a ben sette bambini e adulti ammalati bisognosi di trapianti. Nella loro mitezza trasformarono l’ingiusta e assurda morte del loro figlio in una fonte di vita per altri.
Uomini e donne come questi sono quelli che, credendo alla parola di Gesù, anziché aprire una spirale di violenza, preferiscono superare il male con il bene. Una beatitudine profonda e immensa deve aver riempito i loro cuori!
