La via delle Beatitudini – VI

Siamo giunti alla terza tappa del nostro viaggio intrapreso nelle Beatitudini:

«Beati i miti perché avranno in eredità la terra» (Matteo 5, 5)

Il nostro mondo è pieno di violenze. Quale ultimo esempio basti pensare alla morte di George Floyd, il 46enne afroamericano tenuto immobilizzato da un poliziotto per nove minuti con il ginocchio sul suo collo a Minneapolis negli Stati Uniti d’America.

In realtà sembra che la prepotenza e l’aggressività ci siano state un po’ sempre, a giudicare da quanto racconta la Bibbia sin dalle sue prime pagine.

L’episodio, altamente simbolico, di Caino e Abele ne è una conferma. Caino versò il sangue di suo fratello. Terribile violenza, figlia dell’invidia, a cui seguì poi l’arrogante dichiarazione di una pretesa non-responsabilità nei confronti della vittima: «Sono forse io il guardiano del mio fratello?» (Gn 4, 9).

Nel cuore di ogni essere umano si annida la violenza, e che sulla soglia del suo animo è sempre in agguato la tentazione di sopraffare l’altro, di fargli violenza, o per invidia o per orgoglio o per vendetta. Gli basta un nulla per cadervi.

La nostra realtà di oggi lo conferma. I focolai di guerra esistenti sul pianeta sono decine e decine: popoli interi che soffrono violenza o la infliggono, utilizzando le armi più sofisticate fabbricate dagli interessi meschini di terzi.

Come diceva Santa Caterina da Siena, ciò che Dio diede all’uomo per la vita, egli lo utilizza per la morte…

Ma oltre a queste violenze collettive ce ne sono tante, tantissime altre inflitte o subite singolarmente verso gli esseri umani e verso il creato: bambini che soffrono la violenza degli adulti fino al punto di essere abbandonati, appena nati, tra i rifiuti della strada; donne che subiscono il violento e degradante sfruttamento degli uomini per soddisfare i loro istinti di piacere; famiglie intere, che soffrono la paura e l’insicurezza che crea loro la mafia; anziani che vengono trascurati e messi ai margini della società… Tanta, tanta violenza visibile o invisibile che semina dolore e morte nel mondo.

Davanti a tutto ciò Gesù lancia la sua grande sfida: «Beati i miti, perché erediteranno la terra».

Mite è chi non dà retta al suo istinto di sopraffazione e di vendetta, ma si sforza di rispettare tutti e di vincere il male con il bene. Questo soprattutto: non risponde al male inflittogli con il male, non si vendica, ma è capace di stare al di sopra del male amando sempre e appassionatamente il bene. Anche di quelli che gli fanno del male.

Con frasi alle volte paradossali Gesù ha illustrato il comportamento mite, diametralmente opposto a quello violento. Una delle più incisive è quella del discorso della montagna: «Avete udito che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra» (Mt 5, 38-39). Proponeva così un palese superamento della legge della violenza, già in parte attenuata dalla normativa di Mosé mediante la “legge del taglione” (cfr. Es 21, 23-25). Come sempre, quest’indicazione non va presa alla lettera, ma nel suo spirito. Gesù stesso, infatti, a chi durante il suo processo davanti al sinedrio lo percosse sulla guancia, rispose: «Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?» (Gv 18, 23). Una risposta piena di dignità, ma anche di mitezza, che non si arrende al male, ma lo supera con il bene.

Per essere miti, dobbiamo allora imitare Gesù. La mitezza è il modo concreto con cui Lui vive: «Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime» (Mt 11, 29).

Gesù entra in Gerusalemme mostrandosi mite, seduto su un’asina (cfr. Mt 21, 5). Non si manifesta come un guerriero vittorioso, né come un condottiero che conquista il mondo con la forza, ma come il servo obbediente a Dio e misericordioso verso gli uomini.

Ma la mansuetudine di Gesù non è assenza di forza. Lo vediamo ad esempio quando Egli scaccia i mercanti dal Tempio: lo fa in modo risoluto.

Come in tutte le altre cose anche in questa Gesù è stato coerente fino in fondo con quanto insegnava. Così, nell’imminenza della sua passione, a quel discepolo che per difenderlo sfoderò la spada e tagliò l’orecchio al servo del sommo sacerdote, Egli disse con determinazione: «Rimetti la spada nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada» (Mt 26, 52).

San Pietro a sua volta ricorda l’atteggiamento di Gesù nella Passione: «oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta, ma rimetteva la sua causa a colui che giudica con giustizia» (1 Pt 2, 23). La mitezza di Gesù si vede fortemente nella sua Passione.

Gesù si affida con mitezza totalmente al Padre nella certezza che alla fine avrebbe trionfato la giustizia.

L’apice di questo suo atteggiamento di mitezza lo rivela la preghiera da Lui detta sulla croce in favore di coloro che lo torturavano: «Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno» (Lc 23, 34). Egli sapeva bene di essere vittima di una violenta ingiustizia. Eppure, anziché implorare da Dio un intervento punitivo, che effettuasse giustizia, implora il perdono per i suoi assassini. È così che Egli è diventato Signore, «ereditando la terra» promessa da Dio, ossia la pienezza della vita.

La parola “mite” letteralmente vuol dire dolce, mansueto, gentile, privo di violenza. La mitezza si manifesta nei momenti ostili, è la reazione in una situazione di scontro.

Dall’ebraico “anawim”, che richiama la povertà spirituale e dunque la prima beatitudine. Infatti entrambe sono vicine e complementari. La mitezza evangelica, che nasce appunto dai poveri in spirito, è la totale fiducia e abbandono in Dio, che esclude la collera e la violenza in atti.

Il contrario della mitezza è infatti l’ira.

Il Santo Padre afferma che: «Un momento di collera può distruggere tante cose; si perde il controllo e non si valuta ciò che veramente è importante, e si può rovinare il rapporto con un fratello, talvolta senza rimedio. Per l’ira, tanti fratelli non si parlano più, si allontanano l’uno dall’altro. È il contrario della mitezza. La mitezza raduna, l’ira separa».

Il termine “mite” nella Sacra Scrittura indica anche colui che non ha proprietà terriere. Colpisce dunque che la terza beatitudine affermi proprio che i miti «avranno in eredità la terra».

Ci dice ancora papa Francesco riguardo a questa beatitudine: «Il possesso della terra è l’ambito tipico del conflitto: si combatte spesso per un territorio, per ottenere l’egemonia su una certa zona. Nelle guerre il più forte prevale e conquista altre terre.

Ma guardiamo bene il verbo usato per indicare il possesso dei miti: essi non conquistano la terra; non dice «beati i miti perché conquisteranno la terra». La “ereditano”. Beati i miti perché “erediteranno” la terra. Nelle Scritture il verbo “ereditare” ha un senso ancor più grande. Il Popolo di Dio chiama “eredità” proprio la terra di Israele che è la Terra della Promessa.

Quella terra è una promessa e un dono per il popolo di Dio, e diventa segno di qualcosa di molto più grande di un semplice territorio. C’è una “terra” – permettete il gioco di parole – che è il Cielo, cioè la terra verso cui noi camminiamo: i nuovi cieli e la nuova terra verso cui noi andiamo (cfr Is 65,17; 66,22; 2 Pt 3,13; Ap 21,1)».

Ereditare la terra, dunque significa non tanto avere in possesso la terra geografica-geopolitica, ma piuttosto la terra promessa: «il Cielo, cioè la terra verso cui noi camminiamo: i nuovi cieli e la nuova terra verso cui noi andiamo», ci suggerisce il Pontefice.

Come leggiamo in Apocalisse 21, 1: «Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era più».

Il premio destinato ai miti è quindi quello della vita eterna, che però possiamo già ora vivere attraverso la vita nuova nello Spirito Santo.

Lo Spirito Santo ci conforma a Cristo e ci fa essere discepoli autentici di Gesù. Ci rende donne e uomini nuovi, che vivono nel pieno abbandono a Lui.

La terra che ci viene promessa è anche un’altra e ce lo spiega il Santo Padre: «La “terra” da conquistare con la mitezza è la salvezza di quel fratello di cui parla lo stesso Vangelo di Matteo: «Se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello» (Mt 18, 15). Non c’è terra più bella del cuore altrui, non c’è territorio più bello da guadagnare della pace ritrovata con un fratello. E quella è la terra da ereditare con la mitezza!»

Mahatma Gandhi

La storia recente ci ha messo davanti agli occhi stupendi esempi di uomini e donne che hanno vissuto intensamente questa beatitudine.

Come non ricordare, per esempio, il paladino della non-violenza nel secolo scorso, Gandhi? Egli fu sempre un uomo mite e predicò costantemente, con la condotta e, con le parole e gli scritti, la mitezza: la libertà non si ottiene scatenando la violenza e la vendetta, ma per vie di resistenza attiva. Fu la sua mitezza ad «ereditare la terra» della sua grande patria, l’India, come terra indipendente e libera. La sua mitezza non fu affatto facile e passiva arrendevolezza, ma operosa non-violenza. Affermava Gandhi: «La non violenza non è mai una rinuncia ad ogni lotta concreta contro l’ingiustizia. Al contrario è una lotta più attiva e più concreta».

Con lui ricordiamo anche altri grandi uomini della storia mondiale, difensori della non-violenza, quali il reverendo Martin Luther King e Nelson Mandela, che è riuscito a sconfiggere l’apartheid.

Nel 1980 in Italia fece molto riflettere, nel mezzo della violenza di quei giorni che falciò la vita di Vittorio Bachelet, giurista e politico italiano, assassinato dalle Brigate Rosse, il giovane figlio che, durante i funerali, dichiarò pubblicamente di perdonare coloro che lo avevano privato dall’affetto e dalla presenza di suo padre, rendendolo violentemente orfano. «Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri».

Causò anche molto scalpore quella coppia di genitori statunitensi che, avendo subito lo strappo violento del loro figlioletto di sette anni, Nicholas Green, ammazzato da una vile pallottola mentre giravano l’Italia, si “vendicarono” donando gli organi del figlio morto a ben sette bambini e adulti ammalati bisognosi di trapianti. Nella loro mitezza trasformarono l’ingiusta e assurda morte del loro figlio in una fonte di vita per altri.

Uomini e donne come questi sono quelli che, credendo alla parola di Gesù, anziché aprire una spirale di violenza, preferiscono superare il male con il bene. Una beatitudine profonda e immensa deve aver riempito i loro cuori!

La via delle Beatitudini – V

Oggi affronteremo la seconda beatitudine:

«Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati» (Matteo 5, 4)

Nella vita possiamo piangere per molti motivi, anche di gioia. Ma solitamente le lacrime sono segno di sofferenza.

Le sofferenze occupano tanto spazio nella vita umana! Vedi ad esempio il difficile periodo che stiamo vivendo.

C’è chi piange perché è ammalato, chi perché non si sente accolto con amore, chi perché ha perso una persona amata, chi perché è stato tradito da un amico, o perché non trova più senso nella propria vita e lo ha cercato disperatamente in esperienze di morte e di disperazione, e ancora perché è calpestato nella sua dignità …

Ma c’è anche chi piange perché non ha il pane da dare ai propri figli, perché non riesce a comprare le medicine di cui ha urgente bisogno un familiare ammalato, perché gli hanno fatto morire in cuore le uniche speranze che gli restavano …

Dio ci promette però un mondo nuovo, dove Lui “tergerà ogni lacrima dagli occhi” degli uomini (cfr Ap 21, 4 e Is 25, 8).

Gesù stesso, facendo sua la profezia di Isaia, nella sinagoga di Nazareth all’inizio della sua attività pubblica, afferma che: “Lo Spirito del Signore è su di me perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato […] per consolare tutti gli afflitti […]. Oggi si compie questa scrittura …” (cfr. Is 61, 1-2; Lc 4, 18-19).

Nel pianto è dunque possibile conoscere un’esperienza unica e misteriosa: la consolazione. È possibile sentire un cuore e un corpo accostarsi alla nostra sofferenza e asciugare i nostri occhi. È possibile stringere un abbraccio che è un frammento di nulla in confronto all’abisso del dolore, eppure riscalda, rinnova, risana.

“Saranno consolati”: è la promessa di Gesù. I biblisti ci insegnano che siccome il verbo è al passivo, significa che sarà Dio stesso a farlo con un abbraccio di cui noi non afferriamo nemmeno una debole e lontana comprensione. Il mistero di quell’abbraccio non cancella il dolore che abita la storia degli uomini, ma apre uno squarcio di luce inedito e sorprendente nel buio straziante dell’afflizione.

Il pianto può essere amaro, doloroso, devastante. È l’espressione dell’impotenza di fronte al potere dilagante del male che ci strappa la felicità non vissuta.

Il pianto ci porta ad un dolore interiore che apre ad una rinnovata relazione con il Signore e con il prossimo.

Il Santo Padre a proposito di questa beatitudine ci insegna:

“Questo pianto, nelle Scritture, può avere due aspetti: il primo è per la morte o per la sofferenza di qualcuno. L’altro aspetto sono le lacrime per il peccato […], quando il cuore sanguina per il dolore di avere offeso Dio e il prossimo.

Il lutto, ad esempio, è una strada amara, ma può essere utile per aprire gli occhi sulla vita e sul valore sacro e insostituibile di ogni persona, e in quel momento ci si rende conto di quanto sia breve il tempo.

Vi è un secondo significato di questa paradossale beatitudine: piangere per il peccato.

Qui bisogna distinguere: c’è chi si adira perché ha sbagliato. Ma questo è orgoglio. Invece c’è chi piange per il male fatto, per il bene omesso, per il tradimento del rapporto con Dio. Questo è il pianto per non aver amato, che sgorga dall’avere a cuore la vita altrui. Qui si piange perché non si corrisponde al Signore che ci vuole tanto bene, e ci rattrista il pensiero del bene non fatto; questo è il senso del peccato. Costoro dicono: “Ho ferito colui che amo”, e questo li addolora fino alle lacrime. Dio sia benedetto se arrivano queste lacrime!

Questo è il tema dei propri errori da affrontare, difficile ma vitale. Pensiamo al pianto di san Pietro, che lo porterà a un amore nuovo e molto più vero: è un pianto che purifica, che rinnova. Pietro guardò Gesù e pianse: il suo cuore è stato rinnovato. A differenza di Giuda, che non accettò di aver sbagliato e, poveretto, si suicidò. Capire il peccato è un dono di Dio, è un’opera dello Spirito Santo. Noi, da soli, non possiamo capire il peccato. È una grazia che dobbiamo chiedere. Signore, che io capisca il male che ho fatto o che posso fare. Questo è un dono molto grande e dopo aver capito questo, viene il pianto del pentimento.

Uno dei primi monaci, Efrem il Siro dice che un viso lavato dalle lacrime è indicibilmente bello (cfr Discorso ascetico). La bellezza del pentimento, la bellezza del pianto, la bellezza della contrizione! Come sempre la vita cristiana ha nella misericordia la sua espressione migliore. Saggio e beato è colui che accoglie il dolore legato all’amore, perché riceverà la consolazione dello Spirito Santo che è la tenerezza di Dio che perdona e corregge. Dio sempre perdona: non dimentichiamoci di questo. Dio sempre perdona, anche i peccati più brutti, sempre. Il problema è in noi, che ci stanchiamo di chiedere perdono, ci chiudiamo in noi stessi e non chiediamo il perdono. Questo è il problema; ma Lui è lì per perdonare”.

(Da: Udienza Generale del 12 febbraio 2020 – Catechesi sulle Beatitudini: 3. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati (Mt 5,4))

Leggiamo ora il racconto tratto dal Vangelo di Luca 7, 11-15:

“In seguito Gesù andò in un villaggio chiamato Nain […]; quando fu vicino all’entrata di quel villaggio, Gesù incontrò un funerale: veniva portato alla sepoltura l’unico figlio di una vedova, e molti abitanti del villaggio erano con lei. Appena la vide, il Signore ne ebbe compassione e le disse: ‘Non piangere!’. Poi si avvicinò alla bara e la toccò: quelli che la portavano si fermarono. Allora disse: ‘Ragazzo, ti lo dico io: alzati!’. Il morto si alzò e cominciò a parlare. Gesù allora lo restituì a sua madre”.

In questo episodio troviamo la realizzazione della seconda beatitudine proclamata da Gesù. Egli infatti dice alla donna: “Non piangere!”, che non è una parola vuota ma, viceversa, carica di emotività ed efficacia. Egli dona felicità a una madre vedova che piange amaramente la morte del suo unico figlio, ciò di più caro aveva al mondo, condividendo anzitutto con lei il suo dolore e poi restituendole il figlio vivo!

Gesù soffre con chi soffre e piange con chi piange. Si commuove e ha compassione. Il suo rendersi partecipe del dolore di chi piange lo porta ad asciugare le lacrime di sofferenza. Le asciuga rimuovendo la causa che le faceva versare, la morte del figlio unico. Gesù dunque consola chi è nella tristezza.

Per la società attuale, dominata dall’edonismo, il paradosso della beatitudine che meditiamo oggi, risulta incomprensibile. La cultura secolarizzata, che promuove l’illusione che la scienza e la medicina possano sconfiggere definitivamente il dolore, non è in grado di rispondere alla domanda radicale di Giobbe e di Dostoevskij: perché gli innocenti continuano a soffrire ingiustamente, senza ragione?

Le lacrime di dolore non sono mai volute da Dio, il quale è buono e vuole solo il nostro bene. Contrariamente a quanto si sente spesso ripetere, la sofferenza viene da altrove, non viene da Dio. Non è vero quindi che ciò che ci fa piangere di dolore o di tristezza è “volontà di Dio”. Al contrario, se Egli, come in mille modi ci ha fatto sapere Gesù, vuole soltanto e sempre la nostra vita e la nostra felicità, dobbiamo dire che ciò che si oppone ad esse è anche contrario alla sua volontà. Non è per niente vero che, come dice spesso la gente, “siamo nati per soffrire”.

Dio, secondo quello che possiamo capire dalle parole di Gesù e soprattutto dal suo agire, non ci ha creato per soffrire, ma perché siamo felici della sua stessa felicità. Egli “non gode con la morte dell’uomo” (Ez 18, 32), ma è “amante della vita” (Sap 11, 26), per cui vuole rimuovere ogni lacrima dagli occhi umani, come vuole far scomparire anche le cause che le provocano: le malattie, le incomprensioni, la solitudine, le ingiustizie, la guerra …

Perciò possiamo affermare che quando la sofferenza fa scaturire lacrime dai nostri occhi, Dio sta con noi, per partecipare alla nostra stessa afflizione.

Oltre a soffrire con noi, Dio è anche con noi per aiutarci ad affrontare la sofferenza con dignità, come Dio Padre stette con Gesù appeso alla croce.

In quel terribile momento Egli visse una situazione umanamente assurda, ma Dio era con Lui per aiutarlo a vivere quella circostanza con un cuore di figlio, che ha piena fiducia nell’amore del Padre suo e con un cuore di fratello, che lo porta a perdonare perfino chi lo mette a morte. Perciò la sua morte è “piena di beatitudine”, come dice un’antica preghiera eucaristica.

Ma questa seconda beatitudine pronunciata da Gesù sta a dire anche un’altra cosa: che occorre fare il possibile per asciugare le lacrime che grondano dagli occhi umani, “piangendo con chi piange” (Rom 12, 15), essendo vicini a chi soffre e, nella misura delle proprie capacità, rimuovendo le cause della sua sofferenza.

Asciugare le lacrime oggi significa aiutare l’uomo o la donna che sono nella solitudine e nell’incomprensione, essere capaci di ascoltare con profondità chi si sente emarginato, accompagnare chi è vittima della malattia o della estrema povertà, come fanno i tanti eroi e testimoni che condividono la vita dei poveri e sofferenti nei posti più miserevoli della terra.

Ma significa anche darsi da fare per sradicare quelle ingiustizie che, nella vita sociale in tutto il mondo, creano milioni di esclusi e di emarginati.

Pentecoste 2020


Pentecoste – Particolare dell’Abbazia della Dormizione di Maria sul monte Sion a Gerusalemme

Oggi festeggiamo la Pentecoste, una festa cristiana che spesso viene messa in secondo piano e non tutti ne conoscono il significato pieno.

La Pentecoste è la realizzazione del mistero pasquale.

Lo Spirito Santo è infatti il dono del Cristo risorto, anzi il frutto della sua obbedienza fino alla morte.

Il Giovedì Santo, durante l’Ultima Cena, Gesù afferma infatti: “Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore, perché rimanga con voi per sempre” (Giovanni 14, 16)

Durante la sua Passione dunque, Gesù ci promette lo Spirito Santo, che nella sua morte in Croce scaturisce dal suo costato inondando l’umanità intera.

Quando Gesù appare risorto agli Apostoli la sera del giorno di Pasqua “alitò su di loro e disse: <<Ricevete lo Spirito Santo>>”.

È Cristo dunque che con la sua morte e la sua risurrezione ci ha meritato il dono dello Spirito. La Pentecoste è il frutto della Pasqua.

Lo Spirito Santo rende attuale in noi tutto ciò che Cristo ha compiuto una volta per sempre.

Cristo muore e risorge per “radunare i figli dispersi” (cfr. Giovanni 11, 52).

Nella storia, nel tempo è lo Spirito che rende contemporanea e attuale quest’opera.

A Pentecoste (cfr. Atti degli Apostoli 2) nasce la Chiesa, la comunità di amore.

Essa ha coscienza che non è nata da un progetto umano, né da volontà d’uomo, ma da Dio.

Con un intervento prodigioso, Dio ha effuso il suo Spirito sugli apostoli e sui discepoli radunati in preghiera nel Cenacolo con Maria, la madre di Gesù.

“Venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo, e riempì tutta la casa dove si trovavano.
Apparvero loro lingue come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro; ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere d’esprimersi”
(Atti degli Apostoli 2, 2-4)

La forza dello Spirito dona agli apostoli il coraggio di annunciare pubblicamente la risurrezione di Gesù e apre il cuore di coloro che li ascoltano alla fede e alla conversione.

È nata così, nel giorno di Pentecoste, la prima comunità cristiana, segno e modello per le comunità cristiane di tutti i tempi; risposta divina all’esigenza profonda di comunione che nasce dal cuore umano; luce di speranza per tutti gli uomini e le donne.

Ai piedi del Sinai, dopo il passaggio del Mar Rosso, l’antica Pasqua, Dio fa agli ebrei il dono della sua Legge, consegnando i dieci comandamenti e trasforma così una massa di schiavi in un popolo libero. Nasce così l’antico popolo di Dio, nella festa della Pentecoste ebraica.

A Gerusalemme, cinquanta giorni dopo la risurrezione di Gesù, la nuova Pasqua, Dio fa il dono dello Spirito Santo al gruppo dei credenti radunati nel Cenacolo e li trasforma interiormente. Nasce il nuovo popolo di Dio, la Chiesa, nella Pentecoste cristiana.

Nella Chiesa, lo Spirito suscita la diversità dei carismi e li rende “servizi” per l’edificazione e la crescita dell’unico Corpo di Cristo.

La presenza dello Spirito Santo che opera, in modo implicito nell’Antico Testamento, e in modo esplicito nel Nuovo, va riconosciuta in ogni momento del piano della salvezza.

Egli è lo Spirito creatore che edifica il Corpo di Cristo; è il dono messianico per eccellenza che fa entrare l’uomo in un nuovo e definitivo rapporto con Dio e lo conforma a Cristo; conserva e alimenta la comunione di salvezza tra gli uomini.

Dono ottenuto e inviato a noi da Gesù Cristo, ne continua e completa la missione, animando e guidando la Chiesa e il mondo nel cammino verso l’ultimo compimento.

È lo Spirito che spinge la Chiesa a svilupparsi, a rinnovarsi, a capire i tempi, a evangelizzare il mondo; è lui che ne conserva la struttura organica e ne vivifica le istituzioni; è lui che viene comunicato nei sacramenti, per mezzo dei quali santifica il popolo di Dio.

Lo Spirito Santo, effuso nella Pentecoste, è principio di unità e di interiorità. Egli distribuisce alla Chiesa doni e carismi, vi suscita vocazioni e opere che l’autorità non estingue ma discerne, giudica e coordina.

Lo Spirito Santo crea l’uomo nuovo. 

Conosciamo che dimoriamo in Dio e Dio in noi perché ci ha fatto il dono del suo Spirito. E la prova che siamo figli è questa: “Dio mandò lo Spirito del Figlio suo nei nostri cuori, il quale grida: Abbà, Padre” (cfr. Gal 4, 6).

È per questo dono che “non siamo più schiavi, ma figli, e se figli, anche eredi, coeredi di Dio, coeredi di Cristo” (cfr. Gal 4, 7). E diciamo allora: “dove c’è lo Spirito, là c’è la libertà” (cfr. 2 Cor 3, 17).

La Rivelazione ci mostra che Dio si inserisce sempre più intimamente nella sua creazione e che dona sempre più profondamente se stesso per rendere partecipe l’uomo alla sua vita, per realizzare con lui la più intima comunione.

È un’opera unica finalizzata, fin dall’inizio, a questa comunione. Essa inizia a partire dal Padre, che crea per amore, è realizzata dal Figlio, inviato dal Padre, per mezzo del mistero pasquale, attuata e portata a compimento nel tempo dello Spirito inviato dal Padre e dal Figlio.

Noi crediamo per fede che è lo Spirito Santo che ci ha resi “uomini nuovi”, conformandoci interiormente a Cristo, trasformandoci in uomini e donne non con un cuore di pietra, bensì di carne, che sanno amare. Figli del Padre e fratelli e sorelle di tutti gli uomini in Cristo: figli nel Figlio.

Lo Spirito Santo, che è Spirito di verità, di amore e di unione, è sorgente dell’amore autentico nel mondo: è la forza che spinge l’uomo a superare i limiti dell’egoismo, ad aprirsi. È presente in ogni tentativo per la liberazione dell’uomo, per la sua piena umanizzazione.

Concludendo, vorrei allora riferirmi al discorso del Santo Padre, durante l’incontro di Charis, il Servizio Internazionale per il Rinnovamento Carismatico Cattolico, alla Veglia di Pentecoste del 30 maggio 2020. Papa Francesco afferma infatti riguardo alla pandemia di coronavirus che stiamo vivendo:

Tutta questa sofferenza non sarà servita a nulla se non costruiremo tutti insieme una società più giusta, più equa, più cristiana, non di nome, ma di fatto, una realtà che ci porti a una condotta cristiana.  Se non lavoreremo per porre fine alla pandemia della povertà nel mondo, alla pandemia della povertà nel Paese di ognuno di noi, nella città dove vive ognuno di noi, questo tempo sarà stato invano.

Dalle grandi prove dell’umanità, e tra queste la pandemia, si esce migliori o peggiori. Non si esce uguali. Io vi chiedo: Come volete uscirne voi? Migliori o peggiori? Ed è per questo che oggi ci apriamo allo Spirito Santo affinché sia Lui a cambiare il nostro cuore e ad aiutarci a uscirne migliori”.

Riceviamo dunque in questa Pentecoste la forza dello Spirito Santo per uscire migliori di prima da questo momento di dolore e di prova rappresentato dalla pandemia.

BUONA PENTECOSTE!

La via delle Beatitudini – IV

Oggi stiamo vivendo un momento di grande difficoltà. Da una parte l’emergenza del coronavirus ha portato ad una crisi sanitaria ed economica, che è sotto gli occhi di tutti. Ma questo disagio aggrava ulteriormente lo smarrimento che la società odierna sta passato. Non parliamo solo di crisi economica, ma ancora peggio: abbiamo perso la nostra identità e non sappiamo più chi siamo. E, dunque, è anche un problema sapere cosa vogliamo e cosa possiamo essere.

C’è una crisi morale, in cui molti valori che una volta erano fondamentali, hanno perso di importanza e viceversa motivi effimeri sono divenuti essenziali.

La via d’uscita dalla crisi è sempre più lontana. Oggi più che mai abbiamo bisogno di indicazioni riguardo a noi stessi. Dobbiamo capire come realizzarci in giusta maniera.

Il Discorso della Montagna è uno dei luoghi del Vangelo in cui tutto ciò viene proclamato. Si parla di chi è beato. Beato è chi si realizza pienamente come essere umano. E Gesù proclama appunto questo. Lo annuncia in forma paradossale. Perché la mentalità comune considera beato proprio chi fa il contrario di ciò che lui dice.

Approfondiamo oggi la prima delle otto Beatitudini, narrate dal Vangelo di Matteo.

«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Matteo 5, 3).

Rispetto alla mentalità di questo mondo, risulta paradossale che la povertà sia oggetto di gioia.

Chiunque vorrebbe combattere la povertà, giustamente, ma in questo passaggio della Bibbia, non parliamo tanto di povertà di tipo economico, ma piuttosto dei “poveri del Signore” della tradizione biblica, gli “anawim”, quelle anime che si abbandonano fiduciosamente nel Signore, proprio perché sono mendicanti di Dio.

Nell’umiltà riconoscono l’infinita grandezza di Dio e la propria piccolezza e non temono, ma affidano a Dio tutto se stessi e sanno di avere da lui la vita e tutto il bene.

Per cui l’atteggiamento è di un’anima umile, che confida solo nel Signore Dio (cfr. Sof 3,12).

I poveri in spirito sono i veri umili, coloro che, combattendo le difficoltà di tutti i giorni, hanno preso coscienza dei propri limiti. Questi hanno scoperto la loro povertà di esseri umani. Sanno che gli avvenimenti della vita sono legati solo in parte alla propria volontà.

I poveri in spirito sono quelli che capiscono che il loro io non è il centro del mondo e che il mondo non dipende da loro. Lo possono fare aprendosi agli altri. Lo possono fare aprendosi a Dio. E trovando in questa relazione la prospettiva e la forza, per vivere nel modo giusto quanto li può capitare.

Le persone al lato opposto sono coloro che hanno ogni pretesa di dominare e prevalere sull’altro, che hanno ogni egoistico possesso materiale o spirituale.

I poveri in spirito sono coloro che si riconoscono per quello che sono: un nulla davanti a Dio. L’umiltà è quindi riconoscere la nostra vera natura, la nostra povertà e la nostra piccolezza di fronte alla ricchezza e alla grandezza di Dio. Per questo il Regno dei Cieli appartiene a queste persone, perché confessano l’onnipotenza di Dio, lo accettano come Re della loro vita. Vivono già in questo regno.

Per Gesù proprio questi poveri sono i primi destinatari del Vangelo, della Buona Notizia del Regno di Dio che egli annuncia (cfr. Mt 11,5-6; Lc 4,18): venuto per narrare a ogni essere umano il volto di Dio (cfr. Gv 1,18), Gesù ha vissuto quale “mite e umile di cuore” (Mt 11,29) e ha testimoniato il Regno dei Cieli vivendo in prima persona un’esistenza colma di senso. Egli, infatti, aveva una ragione per la quale valeva la pena spendere la vita, fino alla morte: la libera scelta di amare tutti gli uomini suoi fratelli, persino i nemici.

Abbandono in Dio e difesa del debole sono i luoghi in cui “Dio regna” già ora, non in un futuro di là da venire.

Come detto la povertà che si racconta qui, non è un mancare di tutto, non è miseria o indigenza, ma è una rinuncia a possedere per sé: ciò che si ha e si è, va sempre condiviso con gli altri; ciò che si ha e si è, non va considerato come un privilegio, come un titolo di successo o di potere, ma occorre condividerlo, senza trattenerlo per sé…

Non lo si ripeterà mai abbastanza: il vero nome della povertà vissuta da Gesù Cristo, e dunque della povertà cristiana, è condivisione. Per questo il discepolo abbandona casa e campi per seguire Gesù, abbandona anche la sicurezza della famiglia per stare con lui (cfr. Mc 10,29 e par.); egli condivide con i poveri ciò che possiede, perché sa che il giudizio incombe e che nel giudizio Dio si mostra come vendicatore dei poveri, come colui che rende loro giustizia.

E la croce come esito di una vita vissuta nella giustizia rivela la povertà vera di Gesù: nessuno a difenderlo, nessuno a sostenerlo, come un uomo che non conta nulla per il potere e per la gente, un uomo solo e povero come il Servo sofferente di Isaia, come il giusto povero che nei Salmi può unicamente gridare a Dio, affidandogli tutta la propria vita!

Gesù è stato “il povero del Signore”, dalla nascita fino alla morte: è stato libero come può esserlo solo chi è povero nel cuore; è stato capace di accogliere le umiliazioni, sottomettendosi per amore a tutti coloro che incontrava, senza rispondere alla violenza con la violenza, ma continuando sempre a vivere nell’autentica, profonda povertà.

Gesù ha saputo ascoltare il grido del povero, davanti al quale si è invece tentati di distogliere lo sguardo. Così facendo, ha tracciato per noi un cammino preciso: dopo di lui, il povero che manca del necessario per vivere con dignità è “sacramento” di Cristo, perché con lui Gesù ha voluto identificarsi nel discorso sul giudizio finale (cfr. Mt 25,31-46), ma è nello stesso tempo “segno” dell’ingiustizia che vige nel mondo, del venir meno degli umani al comandamento dell’amore per il prossimo.

Solo attraverso l’assunzione della semplicità e la disponibilità a rendere ogni giorno povero il nostro cuore, “sulle tracce di Cristo” (cfr. 1Pt 2,21), giungeremo alla comunione fraterna: è così che nostro “è il regno di Dio” perché Dio regna nelle nostre vite; è così che si può sperimentare già qui e ora, immersi nel duro mestiere di vivere, la beatitudine dei poveri in spirito, concessa a chi si esercita a fare della propria esistenza un capolavoro di amore.

La via delle Beatitudini – III

Gesù, uomo delle beatitudini

Beati i poveri

Gesù nasce povero,

muore nudo e solo su una croce.

Sceglie una vita povera,

non cerca ricchezze e onori.

Non sta con i potenti del mondo.

Condivide la sorte degli ultimi,

di quelli che non contano nulla

e attendono tutto da Dio.

A loro annuncia

la buona novella della salvezza.

Gesù è l’uomo povero e libero

che si abbandona

nelle mani del Padre

e lo prega con fiducia.

Gesù vive sempre

in comunione con Dio:

Gesù è il regno di Dio.

Beati gli afflitti

Gesù piange con chi piange,

si fa carico del dolore degli altri

e risponde al loro grido di aiuto.

Egli dona la vista ai ciechi,

l’udito ai sordi,

fa camminare gli storpi,

guarisce i malati di lebbra…

Al suo passaggio

il pianto si trasforma in gioia,

l’angoscia in speranza,

la morte in vita.

Gesù è la consolazione

di coloro che soffrono.

Beati i miti

Gesù è mite e umile di cuore.

Non tratta nessuno con violenza,

ma è buono verso tutti.

Non vuole dominare sugli altri.

ma sceglie l’ultimo posto

e si mette a loro servizio

fino a donare per essi la vita.

Gesù è un Messia d’amore,

è il re della Pace:

non usa la forza

per portare la salvezza

e per instaurare il suo regno

di giustizia e di pace.

Beato chi ha fame e sete di giustizia

Gesù è “giusto” con Dio e con gli uomini,

desidera ardentemente

di fare la volontà di Dio.

È disposto ad affrontare

anche la morte,

pur di compiere la missione

che il Padre gli ha affidato.

Gesù è il Figlio obbediente

che si sazia

con il pane della fedeltà,

che beve sino in fondo

il calice dell’obbedienza.

Beati i misericordiosi

Gesù è misericordioso

e grande nel perdono.

Egli non è venuto per condannare,

ma per portare a tutti la salvezza.

È venuto a cercare

ciò che era perduto.

Gesù accoglie i peccatori,

siede a mensa con loro,

li invita alla conversione.

Nel suo amore senza limiti

perdona coloro

che lo hanno condannato

a morire sulla Croce

e chiede per loro

il perdono di Dio.

Beati i puri di cuore

Gesù è puro di cuore,

limpido e sincero.

È l’uomo senza maschere,

che non ha secondi fini

e non inganna mai nessuno.

Dice con amore la verità a tutti

e denuncia ogni forma

di ipocrisia e di doppiezza.

Davanti al Sommo Sacerdote,

dichiara apertamente,

di essere il Messia tanto atteso,

il Figlio di Dio.

Preferisce morire

piuttosto che tradire la verità.

Sul volto di Gesù, vero uomo,

risplende il volto di Dio.

Beati gli operatori di pace

Gesù è venuto a portare la pace,

quella vera, che nasce

dalla giustizia e dall’amore.

Il suo è un messaggio

di riconciliazione e di fraternità.

Egli abbatte

il muro delle divisioni;

spezza il cerchio della violenza

e rompe il vortice della vendetta

con l’amore che perdona.

Gesù risponde all’odio

con l’amore,

ama i nemici e prega per loro.

Gesù è la pace.

Nel sangue della sua Croce

gli uomini tornarono ad essere

figli di Dio e fratelli fra loro.

Beati i perseguitati

Gesù è perseguitato, giudicato

e ingiustamente condannato,

perché non è sceso a compromessi.

Ha preferito obbedire a Dio

piuttosto che agli uomini.

Si è consegnato volontariamente

nelle mani dei persecutori.

Con il suo amore obbediente distrugge

la disobbedienza del peccato;

con la sua morte vince la morte;

con la sua risurrezione

dona agli uomini

un futuro e una speranza

e li introduce nel regno di Dio.

Gesù è il regno di Dio.

La via delle Beatitudini

La vita secondo il progetto di Dio

Che cosa devo intraprendere per vivere da persona umana?

Quali valori devo realizzare?

La luce della coscienza morale, cioè la capacità di distinguere il bene e il male e di agire di conseguenza, è la prima guida sulla via della giustizia e dell’amore.

Ma la coscienza è sottoposta alla pressione degli istinti e di una opinione pubblica non sempre conforme alla legge morale.

Così è facile giudicare le azioni non sul metro esigente della verità, ma secondo i nostri comodi o la mentalità della maggioranza, di questa nostra odierna società secolarizzata.

Il cristiano che sceglie Gesù come suo unico Maestro di vita, si lascia illuminare dalla sua parola e la accoglie come guida sicura della sua coscienza.

Per il cristiano Gesù è la via, la verità e la vita (cfr. Giovanni 14, 6)

La vita morale è una lotta.

Vivere nell’amore in un mondo dominato dall’egoismo e dall’ingiustizia, rifiutare di unirsi alla sua logica di dominio, di violenza, di sopruso significa andare incontro a inevitabili sofferenze.

La fedeltà alla coscienza morale può condurre a dover scegliere senza esitazione fra la giustizia e la propria vita.

Chi ci assicura che le sofferenze e la morte dell’uomo giusto non segnino la vittoria del prepotente e del malvagio?

Il cuore ha il presentimento che il male non può avere l’ultima parola, che il futuro è del bene.

La certezza però ci è donata da Gesù nelle beatitudini e soprattutto dal fatto che Lui per primo, l’Innocente, l’Agnello senza macchia, è stato ucciso ed è risuscitato a vita nuova.

Gesù con la sua Passione, Morte e Risurrezione ha vinto sul peccato, la malattia, la morte e il male in generale.

Da questa vittoria dell’Amore nasce la gioia di Pasqua e ci trasforma e ci rende donne e uomini nuovi.

Le persone educano la propria coscienza morale quando non si chiudono in se stessi, nell’autosufficienza dei propri ragionamenti, nel cedimento all’arroganza degli istinti o alla pressione delle opinioni dominanti, ma restano invece aperti e disponibili al confronto sereno e sincero con proposte esigenti, come ad esempio quelle del Vangelo.

Il Discorso della Montagna è stato un punto di riferimento della coscienza morale per generazioni e generazioni nei duemila anni del cristianesimo, sia per i cristiani, sia per i non credenti. E rimane sempre attuale.

I santi, che lo hanno vissuto concretamente, sono diventati esemplari della più alta umanità.

Vorrei quindi proporvi un itinerario che riguarda le Beatitudini e il Discorso della Montagna, che ci aiuta a vivere secondo la chiamata di Dio, per essere realizzati come persone, per tendere alla santità di vita e percorrere la via della gioia.

Un tema questo che ha illuminato tante persone, molto caro a me e affrontato recentemente anche da Papa Francesco durante le Udienze Generali a partire dal 29 gennaio di quest’anno.

Dice infatti il Santo Padre introducendo queste Catechesi:

“È difficile non essere toccati da queste parole di Gesù, ed è giusto il desiderio di capirle e di accoglierle sempre più pienamente. Le Beatitudini contengono la “carta d’identità” del cristiano – questa è la nostra carta d’identità -, perché delineano il volto di Gesù stesso, il suo stile di vita.”

E afferma ancora:

“Dio, per donarsi a noi, sceglie spesso delle strade impensabili, magari quelle dei nostri limiti, delle nostre lacrime, delle nostre sconfitte. È la gioia pasquale di cui parlano i fratelli orientali, quella che ha le stimmate ma è viva, ha attraversato la morte e ha fatto esperienza della potenza di Dio. Le Beatitudini ti portano alla gioia, sempre; sono la strada per raggiungere la gioia.”

Buon viaggio!!!

The Sermon on the Mount Carl Bloch, 1890

Tempo di Pasqua

PERCHÉ CERCATE TRA I MORTI COLUI CHE È VIVO?

Vangelo di Luca 24, 5
  • Gesù è risorto

Leggi: Luca 24, 1-12

[1] Il primo giorno dopo il sabato, di buon mattino, si recarono alla tomba, portando con sé gli aromi che avevano preparato.

[2] Trovarono la pietra rotolata via dal sepolcro;

[3] ma, entrate, non trovarono il corpo del Signore Gesù.

[4] Mentre erano ancora incerte, ecco due uomini apparire vicino a loro in vesti sfolgoranti.

[5] Essendosi le donne impaurite e avendo chinato il volto a terra, essi dissero loro: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo?

[6] Non è qui, è risuscitato. Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea,

[7] dicendo che bisognava che il Figlio dell’uomo fosse consegnato in mano ai peccatori, che fosse crocifisso e risuscitasse il terzo giorno”.

[8] Ed esse si ricordarono delle sue parole.

[9] E, tornate dal sepolcro, annunziarono tutto questo agli Undici e a tutti gli altri.

[10] Erano Maria di Màgdala, Giovanna e Maria di Giacomo. Anche le altre che erano insieme lo raccontarono agli apostoli.

[11] Quelle parole parvero loro come un vaneggiamento e non credettero ad esse.

[12] Pietro tuttavia corse al sepolcro e chinatosi vide solo le bende. E tornò a casa pieno di stupore per l’accaduto.

Riflessione:                                    

Da quel mattino di Pasqua l’annuncio della Risurrezione continua a risuonare nel mondo: “Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui.”

Con la risurrezione di Gesù Dio ha dato una certezza nuova all’umanità: la morte non è l’ultima parola sulla vita dell’uomo! È questa la speranza cristiana: in Gesù risorto, Dio chiama ogni vivente alla vita nuova, alla vita eterna.

BUONA SANTA PASQUA

[3] Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo; nella sua grande misericordia egli ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, [4] per una eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce. Essa è conservata nei cieli per voi, [5] che dalla potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, per la vostra salvezza, prossima a rivelarsi negli ultimi tempi. [6] Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere un pò afflitti da varie prove, [7] perché il valore della vostra fede, molto più preziosa dell’oro, che, pur destinato a perire, tuttavia si prova col fuoco, torni a vostra lode, gloria e onore nella manifestazione di Gesù Cristo: [8] voi lo amate, pur senza averlo visto; e ora senza vederlo credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, [9] mentre conseguite la mèta della vostra fede, cioè la salvezza delle anime.

Prima Lettera di Pietro 1, 3-9

La gioia di Pasqua, che nasce dalla vittoria dell’amore sul peccato, la malattia e la morte, ci trasforma e ci rende donne e uomini nuovi.

Gesù morendo e risorgendo ha vinto tutto questo e ci ha donato la salvezza.

Siamo quindi chiamati a testimoniare questa gioia agli altri.

In particolare in questo periodo difficile, di dolore e di sofferenza, dove tutti siamo privati dei nostri agi e di alcune libertà per il bene comune, dobbiamo continuare a sperare nella Risurrezione di Gesù.

Egli è venuto per donarci il suo amore misericordioso e la vita eterna.

Buona Santa Pasqua di Risurrezione!

Vi lascio con due brani del Rinnovamento nello Spirito Santo, che cantano la gioia di Pasqua:

Vivere la Quaresima

Venerdì Santo

VOLGERANNO LO SGUARDO A COLUI CHE HANNO CROCIFISSO

Vangelo di Giovanni 19, 37/ Libro di Zaccaria 12, 10
  • Morte di Gesù
  • La sepoltura
Sommità del Calvario all’interno della Basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme

Leggi: Matteo 27, 45-66

[45] Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio si fece buio su tutta la terra.

[46] Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: “Elì, Elì, lemà sabactàni?”, che significa: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.

[47] Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: “Costui chiama Elia”.

[48] E subito uno di loro corse a prendere una spugna e, imbevutala di aceto, la fissò su una canna e così gli dava da bere.

[49] Gli altri dicevano: “Lascia, vediamo se viene Elia a salvarlo!”.

[50] E Gesù, emesso un alto grido, spirò.

[51] Ed ecco il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce si spezzarono,

[52] i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono.

[53] E uscendo dai sepolcri, dopo la sua risurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti.

[54] Il centurione e quelli che con lui facevano la guardia a Gesù, sentito il terremoto e visto quel che succedeva, furono presi da grande timore e dicevano: “Davvero costui era Figlio di Dio!”.

[55] C’erano anche là molte donne che stavano a osservare da lontano; esse avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo.

[56] Tra costoro Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedèo.

[57] Venuta la sera giunse un uomo ricco di Arimatèa, chiamato Giuseppe, il quale era diventato anche lui discepolo di Gesù.

[58] Egli andò da Pilato e gli chiese il corpo di Gesù. Allora Pilato ordinò che gli fosse consegnato.

[59] Giuseppe, preso il corpo di Gesù, lo avvolse in un candido lenzuolo

[60] e lo depose nella sua tomba nuova, che si era fatta scavare nella roccia; rotolata poi una gran pietra sulla porta del sepolcro, se ne andò.

[61] Erano lì, davanti al sepolcro, Maria di Màgdala e l’altra Maria.

[62] Il giorno seguente, quello dopo la Parasceve, si riunirono presso Pilato i sommi sacerdoti e i farisei, dicendo:

[63] “Signore, ci siamo ricordati che quell’impostore disse mentre era vivo: Dopo tre giorni risorgerò.

[64] Ordina dunque che sia vigilato il sepolcro fino al terzo giorno, perché non vengano i suoi discepoli, lo rubino e poi dicano al popolo: È risuscitato dai morti. Così quest’ultima impostura sarebbe peggiore della prima!”.

[65] Pilato disse loro: “Avete la vostra guardia, andate e assicuratevi come credete”.

[66] Ed essi andarono e assicurarono il sepolcro, sigillando la pietra e mettendovi la guardia.

La Pietà di Michelangelo – Basilica di San Pietro in Vaticano

Riflessione:                                    

Quando Gesù emette l’ultimo respiro e muore, con la preghiera sulle labbra e nella più assoluta fedeltà a Dio, in realtà è la morte ad essere sconfitta. Davanti a Gesù che muore in questo modo, chi ha fede può dire: “Quest’uomo è davvero Figlio di Dio!”

Gesù compie fino in fondo la volontà del Padre. Attua l’amore infinto di Dio per gli uomini a prezzo della propria vita. Egli è il Figlio obbediente fino alla morte e alla morte di croce.

Gesù morendo nudo, povero e solo su una croce, sacrificando la Sua vita per noi, ha rivelato che l’uomo si realizza non nel possesso delle cose e nel dominio degli altri, ma nell’amore gratuito, totale e incondizionato.

La Pietra dell’Unzione – Basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme

Vivere la Quaresima

Venerdì della VI settimana

Oggi vorrei riproporvi quello che abbiamo vissuto venerdì scorso, il 27.03.2020, durante la funzione voluta dal Santo Padre di fronte alla pandemia di coronavirus.

“Signore, benedici il mondo, dona salute ai corpi e conforto ai cuori”, sappiamo “che Tu hai cura di noi”, ha detto prima dell’adorazione del Santissimo Sacramento e della Benedizione Urbi et Orbi, alla quale è stata annessa la possibilità di ricevere l’indulgenza plenaria.

È stato un momento che passerà alla storia. In una piazza San Pietro insolitamente vuota e sotto la pioggia battente, la riflessione di papa Francesco e i suoi gesti hanno toccato i cuori di credenti, agnostici e atei.

Nel silenzio di questa piazza il Pontefice però non era solo: con lui c’erano la Santissima Vergine Maria, rappresentata dall’icona della Salus populi romani, da sempre venerata in Santa Maria Maggiore, e il crocifisso ligneo della chiesa di San Marcello al Corso, che protesse Roma dalla “grande peste”.

Credo sia uno spunto importante per il nostro cammino di fede.

Vangelo secondo Marco 4, 35-41

In quel giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva». E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui.

Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?».

Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».

E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».

Commento del Santo Padre:

«Venuta la sera» (Mc 4,35). Così inizia il Vangelo che abbiamo ascoltato. Da settimane sembra che sia scesa la sera. Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi. Ci siamo trovati impauriti e smarriti. Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti. Come quei discepoli, che parlano a una sola voce e nell’angoscia dicono: «Siamo perduti» (v. 38), così anche noi ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme.

È facile ritrovarci in questo racconto. Quello che risulta difficile è capire l’atteggiamento di Gesù. Mentre i discepoli sono naturalmente allarmati e disperati, Egli sta a poppa, proprio nella parte della barca che per prima va a fondo. E che cosa fa? Nonostante il trambusto, dorme sereno, fiducioso nel Padre – è l’unica volta in cui nel Vangelo vediamo Gesù che dorme –. Quando poi viene svegliato, dopo aver calmato il vento e le acque, si rivolge ai discepoli in tono di rimprovero: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (v. 40).

Cerchiamo di comprendere. In che cosa consiste la mancanza di fede dei discepoli, che si contrappone alla fiducia di Gesù? Essi non avevano smesso di credere in Lui, infatti lo invocano. Ma vediamo come lo invocano: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?» (v. 38). Non t’importa: pensano che Gesù si disinteressi di loro, che non si curi di loro. Tra di noi, nelle nostre famiglie, una delle cose che fa più male è quando ci sentiamo dire: “Non t’importa di me?”. È una frase che ferisce e scatena tempeste nel cuore. Avrà scosso anche Gesù. Perché a nessuno più che a Lui importa di noi. Infatti, una volta invocato, salva i suoi discepoli sfiduciati.

La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità. La tempesta pone allo scoperto tutti i propositi di “imballare” e dimenticare ciò che ha nutrito l’anima dei nostri popoli; tutti quei tentativi di anestetizzare con abitudini apparentemente “salvatrici”, incapaci di fare appello alle nostre radici e di evocare la memoria dei nostri anziani, privandoci così dell’immunità necessaria per far fronte all’avversità.

Con la tempesta, è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli.

«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Signore, la tua Parola stasera ci colpisce e ci riguarda, tutti. In questo nostro mondo, che Tu ami più di noi, siamo andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto. Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato. Ora, mentre stiamo in mare agitato, ti imploriamo: “Svegliati Signore!”.

«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Signore, ci rivolgi un appello, un appello alla fede. Che non è tanto credere che Tu esista, ma venire a Te e fidarsi di Te. In questa Quaresima risuona il tuo appello urgente: “Convertitevi”, «ritornate a me con tutto il cuore» (Gl 2,12). Ci chiami a cogliere questo tempo di prova come un tempo di scelta. Non è il tempo del tuo giudizio, ma del nostro giudizio: il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è. È il tempo di reimpostare la rotta della vita verso di Te, Signore, e verso gli altri. E possiamo guardare a tanti compagni di viaggio esemplari, che, nella paura, hanno reagito donando la propria vita. È la forza operante dello Spirito riversata e plasmata in coraggiose e generose dedizioni. È la vita dello Spirito capace di riscattare, di valorizzare e di mostrare come le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni – solitamente dimenticate – che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell’ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia: medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo. Davanti alla sofferenza, dove si misura il vero sviluppo dei nostri popoli, scopriamo e sperimentiamo la preghiera sacerdotale di Gesù: «che tutti siano una cosa sola» (Gv 17,21). Quanta gente esercita ogni giorno pazienza e infonde speranza, avendo cura di non seminare panico ma corresponsabilità. Quanti padri, madri, nonni e nonne, insegnanti mostrano ai nostri bambini, con gesti piccoli e quotidiani, come affrontare e attraversare una crisi riadattando abitudini, alzando gli sguardi e stimolando la preghiera. Quante persone pregano, offrono e intercedono per il bene di tutti. La preghiera e il servizio silenzioso: sono le nostre armi vincenti.

«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». L’inizio della fede è saperci bisognosi di salvezza. Non siamo autosufficienti, da soli; da soli affondiamo: abbiamo bisogno del Signore come gli antichi naviganti delle stelle. Invitiamo Gesù nelle barche delle nostre vite. Consegniamogli le nostre paure, perché Lui le vinca. Come i discepoli sperimenteremo che, con Lui a bordo, non si fa naufragio. Perché questa è la forza di Dio: volgere al bene tutto quello che ci capita, anche le cose brutte. Egli porta il sereno nelle nostre tempeste, perché con Dio la vita non muore mai.

Il Signore ci interpella e, in mezzo alla nostra tempesta, ci invita a risvegliare e attivare la solidarietà e la speranza capaci di dare solidità, sostegno e significato a queste ore in cui tutto sembra naufragare. Il Signore si risveglia per risvegliare e ravvivare la nostra fede pasquale. Abbiamo un’ancora: nella sua croce siamo stati salvati. Abbiamo un timone: nella sua croce siamo stati riscattati. Abbiamo una speranza: nella sua croce siamo stati risanati e abbracciati affinché niente e nessuno ci separi dal suo amore redentore. In mezzo all’isolamento nel quale stiamo patendo la mancanza degli affetti e degli incontri, sperimentando la mancanza di tante cose, ascoltiamo ancora una volta l’annuncio che ci salva: è risorto e vive accanto a noi. Il Signore ci interpella dalla sua croce a ritrovare la vita che ci attende, a guardare verso coloro che ci reclamano, a rafforzare, riconoscere e incentivare la grazia che ci abita. Non spegniamo la fiammella smorta (cfr Is 42,3), che mai si ammala, e lasciamo che riaccenda la speranza.

Abbracciare la sua croce significa trovare il coraggio di abbracciare tutte le contrarietà del tempo presente, abbandonando per un momento il nostro affanno di onnipotenza e di possesso per dare spazio alla creatività che solo lo Spirito è capace di suscitare. Significa trovare il coraggio di aprire spazi dove tutti possano sentirsi chiamati e permettere nuove forme di ospitalità, di fraternità, di solidarietà. Nella sua croce siamo stati salvati per accogliere la speranza e lasciare che sia essa a rafforzare e sostenere tutte le misure e le strade possibili che ci possono aiutare a custodirci e custodire. Abbracciare il Signore per abbracciare la speranza: ecco la forza della fede, che libera dalla paura e dà speranza.

«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Cari fratelli e sorelle, da questo luogo, che racconta la fede rocciosa di Pietro, stasera vorrei affidarvi tutti al Signore, per l’intercessione della Madonna, salute del suo popolo, stella del mare in tempesta. Da questo colonnato che abbraccia Roma e il mondo scenda su di voi, come un abbraccio consolante, la benedizione di Dio. Signore, benedici il mondo, dona salute ai corpi e conforto ai cuori. Ci chiedi di non avere paura. Ma la nostra fede è debole e siamo timorosi. Però Tu, Signore, non lasciarci in balia della tempesta. Ripeti ancora: «Voi non abbiate paura» (Mt 28,5). E noi, insieme a Pietro, “gettiamo in Te ogni preoccupazione, perché Tu hai cura di noi” (cfr 1 Pt 5,7).

Meditiamo queste toccanti parole, ascoltando questo canto del Rinnovamento nello Spirito Santo: