Il Discorso della Montagna VII

UN AMORE CONCRETO E OPEROSO

Il giudizio sarà sui fatti, non sulle parole

Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa;

quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!

Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro son lupi rapaci.

Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi?

Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi;

un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni.

Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco.

Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere.

Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli.

Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demòni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome?

Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità.

Matteo 7, 13-23

Oggi raggiungiamo la parte finale del Discorso della Montagna.

Gesù ci indica che per salvarci, dobbiamo percorrere la via più difficile e scomoda e la porta stretta, per la quale entreranno tutti quelli che riescono a capire fino in fondo la lieta novella dell’amore di Gesù.

Se tutti gli esseri umani accettassero di amare gli altri come amano se stessi, il mondo sarebbe profondamente diverso, migliore.

Invece diverso non è, perché l’egoismo è imperante, perché anche noi che ci professiamo cristiani non abbiamo il coraggio, al momento buono, di essere coerenti, di volere per gli altri il bene che vogliamo per noi, di evitare di fare agli altri il male che non sopporteremmo se fosse fatto a noi.

Cristo è la porta (cfr. Gv 10, 9) che ci introduce a Dio Padre e, in comunione con Lui, godremo della sua misericordia, della sua protezione e del suo amore.

La porta è stretta perché ci vengono richiesti dei sacrifici, dobbiamo reprimere il nostro orgoglio, toglierci da addosso il peso delle nostre mancanze ed eliminare ogni timore di aprire il cuore con umiltà.

È stretta, ma è sempre spalancata.

“Vorrei farvi una proposta – diceva Papa Francesco – Pensiamo adesso, in silenzio, per un attimo alle cose che abbiamo dentro di noi e che ci impediscono di attraversare la porta: il mio orgoglio, la mia superbia, i miei peccati. E poi, pensiamo all’altra porta, quella spalancata dalla misericordia di Dio che dall’altra parte ci aspetta per darci il suo perdono”.

Nel discorso Gesù poi afferma, che per tutti i discepoli di Cristo c’è un insidia, i falsi profeti.

L’analogia con quelli dell’Antico Testamento ci permette di descriverli. Essi somigliano ai veri profeti, pretendono si essere tali, ma in realtà non lo sono, perché assecondano i vizi degli esseri umani invece di flagellarli, li cullano in una fatale sicurezza e tolgono il rimorso distruggendo il senso del peccato.

Un test infallibile per riconoscerli è giudicarli dai frutti, che li manifestano per quelli che sono.

La prospettiva del giudizio di Cristo lega insieme tutti i versetti nella parte finale del Discorso.

Davanti al Giudice divino le parole non basteranno per evitare l’esclusione dal Regno.

Neppure i carismi più spettacolari serviranno a sfuggire alla terribile sentenza: “Chi siete voi? Non vi ho mai conosciuto, allontanatevi da me!”, nemmeno sarà sufficiente aver ascoltato, ma sarà indispensabile l’obbedienza fedele al Padre e il mettere in pratica le parole che si sono udite.

Non si salvano le persone che parlano continuamente di Dio, ma che non fanno la volontà di Dio, che usano il nome di Gesù, ma non traducono in vita il loro rapporto con il Signore.

Non basta parlare, bisogna praticare!

L’importante non è parlare in modo bello di Dio o saper spiegare bene la Bibbia agli altri, bensì fare la volontà del Padre e, così, essere una rivelazione del suo volto e della sua presenza nel mondo.

La stessa raccomandazione la fece Gesù a quella donna che elogiò Maria, sua madre. Gesù rispose: “Beati coloro che ascoltano la Parola e la mettono in pratica” (Lc 11, 28).

Ci sono persone che vivono nell’illusione di lavorare per il Signore, ma nel giorno dell’incontro definitivo con Lui, scopriranno, tragicamente, che non l’hanno mai conosciuto.

I doni devono stare al servizio del Regno, della comunità

C’erano persone con doni straordinari, come per esempio il dono della profezia, dell’esorcismo, delle guarigioni, ma usavano questi doni per loro, fuori dal contesto della comunità.

Nel giudizio, loro udiranno una sentenza dura da parte di Gesù: “Allontanatevi da me voi che praticate l’iniquità! ”

L’iniquità è l’opposto alla giustizia.

È fare con Gesù ciò che i dottori facevano con la legge: insegnare e non praticare (cfr. Mt 23, 3).

San Paolo dirà la stessa cosa con altre parole ed argomenti: “E se avessi il dono della profezia e conoscessi i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per essere bruciato, ma non avessi la carità, niente mi gioverebbe.” (1Cor 13,2-3).

Un insegnamento non solo da ascoltare, ma da vivere

Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia.

Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sopra la roccia.

Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, è simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia.

Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde, e la sua rovina fu grande”.

Quando Gesù ebbe finito questi discorsi, le folle restarono stupite del suo insegnamento:

egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità e non come i loro scribi.

Matteo 7, 24-29

Per mezzo della parabola finale della casa costruita sulla roccia e della casa costruita sulla spiaggia, San Matteo denuncia e, nello stesso tempo, cerca di correggere la separazione tra fede e vita, tra parlare e fare, tra insegnare e praticare.

Aprirsi e praticare, ecco la conclusione finale del Discorso della Montagna.

Molta gente cerca la sua sicurezza nei doni straordinari o nelle osservanze. Ma la vera sicurezza non viene dal prestigio o dalle osservanze.

Viene da Dio! Viene dall’amore di Dio che ci amò per primo (cfr. 1Gv 4, 19). Il suo amore per noi, manifestato in Gesù supera tutto (cfr. Rom 8, 38-39).

Dio diventa fonte di sicurezza, quando cerchiamo di praticare la sua volontà. Lì Lui sarà la roccia che ci sostiene nei momenti di difficoltà e di tempesta. Come è attuale questa promessa ai giorni nostri!

Nel libro dei Salmi, spesso troviamo l’espressione: “Dio è la mia roccia e la mia fortezza… Mio Dio, roccia mia, mio rifugio, mio scudo, la forza che mi salva…” (Sal 18, 3).

Lui è la difesa e la forza di colui che cerca la giustizia (cfr. Sal 18, 21.24).

Le persone che hanno fiducia in questo Dio, diventano a loro volta, una roccia per gli altri.

Così, il profeta Isaia invita la gente in esilio dicendo: “Voi che siete in cerca di giustizia e che cercate il Signore! Guardate alla roccia da cui siete stati tagliati, alla cava da cui siete stati estratti. Guardate ad Abramo, vostro padre, e a Sara vostra madre.” (Is 51, 1-2).

Il profeta chiede alla gente di non dimenticare il passato. La gente deve ricordare che Abramo e Sara, per la loro fede in Dio, diventarono roccia, inizio del popolo di Dio. Guardando verso questa roccia, la gente doveva acquistare coraggio per lottare ed uscire dalla schiavitù.

E anche così San Matteo, nella parola letta oggi, esorta le comunità ad avere come base la stessa roccia per poter essere, così loro stessi, roccia per rafforzare i loro fratelli e sorelle nella fede.

È questo il senso del nome che Gesù dà a Pietro: “Tu sei Pietro e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa” (Mt 16, 18). Questa è la vocazione delle prime comunità, chiamate ad unirsi a Dio, pietra viva, per diventare loro stesse pietre vive, perché ascoltino e mettano in pratica la Parola (cfr. 1 Pt 2, 4-10; Ef 2, 19-22).

La comunità, costruita sul fondamento della nuova Legge del Discorso della Montagna, rimarrà in piedi nel momento della tormenta.

L’evangelista chiude il Discorso della Montagna dicendo che la moltitudine rimase ammirata dell’insegnamento di Gesù, “come uno che ha autorità, e non come gli scribi”. 

Il risultato dell’insegnamento di Gesù è una coscienza più critica della gente rispetto alle autorità religiose dell’epoca.

Le sue parole semplici e chiare scaturiscono dalla sua esperienza di Dio, dalla sua vita donata al Progetto del Padre. La gente rimane ammirata ed approva l’insegnamento di Gesù.

Il Discorso della Montagna VI

UN AMORE CONCRETO E OPEROSO

Misericordiosi per ottenere misericordia

Non giudicate, per non essere giudicati;

perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati.

Perché osservi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio?

O come potrai dire al tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza dal tuo occhio, mentre nell’occhio tuo c’è la trave?

Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello.

Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi.

Matteo 7, 1-6

Siamo ormai giunti verso la fine del Discorso della Montagna.

Il brano che meditiamo oggi è ricchissimo di insegnamenti. Non siamo creati per condannare, ma per amare. Non siamo giudici, ma fratelli.

Chi ha condannato i fratelli, sarà condannato da Dio.

In questi versetti vi è la denuncia della malignità, che aguzza l’occhio a vedere i minimi difetti dei fratelli, e della fiducia orgogliosa nella propria giustizia, che non lascia vedere le nostre enormi imperfezioni. Troviamo l’ipocrisia di chi vuol far credere di combattere il male, ma lo combatte solo negli altri e non in se stesso.

Inoltre vediamo tre aspetti della vita cristiana:

. la prudenza, in altre parole il necessario discernimento nel dispensare “le cose sante”, vale a dire la Parola di Dio che esige di essere accolta da un cuore disponibile;

. la carità verso il prossimo, intesa come un amore che dona senza alcun limite, senza pensare a nessun contraccambio;

. il decidersi per il Vangelo, vale a dire per Cristo sofferente e perseguitato, guardandosi dalla falsa sicurezza e tenendo presente la terribile serietà dell’esistenza umana, la quale termina in un perdersi o in un vivere.

Spiritualmente parlando, il difetto di vista più frequente non è la miopia, ma la presbiopia.

Miopia significa vedere bene da vicino e male da lontano; presbiopia, al contrario, è vederci bene da lontano, ma male da vicino.

Colui che vede la pagliuzza nell’occhio del fratello e non vede la trave nel suo, è uno che vede lontano, ma non vede vicino. E’ un presbite. Il presbite, a volte, non riesce a leggere uno scritto anche se ha i caratteri grandi come travi e ce l’ha ad un palmo dagli occhi.

Che cosa indica la famosa pagliuzza e la famosa trave?

La pagliuzza è il peccato giudicato nel fratello, qualunque esso sia, in confronto al fatto stesso di giudicare che è la trave. Gesù denuncia qui una tendenza innata dell’uomo che i moralisti antichi hanno illustrato con la favola delle due bisacce.

Nella rielaborazione che ne fa La Fontaine, famoso scrittore di favole, dice: “Quando vieni in questa valle porta ognuno sulle spalle una duplice bisaccia. Dentro a quella che sta innanzi volentieri ognun di noi i difetti altrui vi caccia, e nell’altra mette i suoi”.

Siamo strani noi umani, possediamo occhi di lince nello scorgere i difetti del prossimo e siamo talpe cieche quando si tratta dei nostri. Dovremmo semplicemente rovesciare le cose: mettere i nostri difetti sulla bisaccia che abbiamo davanti e i difetti degli altri su quella dietro. Dopo tutto, i nostri difetti sono i soli che dipendono da noi modificare e correggere.

Ciò che avviene per pregi e difetti avviene anche per diritti e doveri. Noi poniamo il più delle volte i nostri diritti nella bisaccia davanti e i nostri doveri in quella dietro.

Viviamo, soprattutto oggi, in una società dove tutti sbandierano diritti, e nessuno sembra avere doveri.

Nel momento in cui si vuole procurare il favore di qualche settore della società, non si fa che mettergli davanti agli occhi i propri diritti, tacendogli i rispettivi doveri. Tanti conflitti sociali dipendono da qui.

Si impone, anche a questo riguardo, un bel capovolgimento di bisacce: davanti i doveri, dietro i diritti, oppure, ciò che è lo stesso: davanti i diritti degli altri, dietro i diritti nostri. Tanto, anche se sono dietro, non c’è pericolo che li trascuriamo…

In conclusione, la similitudine trave-pagliuzza, è un’immagine grottesca e paradossale, tuttavia rende evidente l’assurdità di colui che si innalza a giudice del fratello.

Chi giudica si autogiustifica (rammentate la parabola del Fariseo e del Pubblicano al Tempio?), s’illude nella propria ipocrisia, che gli maschera la profonda differenza tra la convinzione interiore e il comportamento esterno.

Soltanto una lucida autocritica è la condizione per aiutare, con senso di partecipazione e di misericordia, il fratello a correggersi.

Poveri: fiducia in Dio che apre il cuore alla preghiera

Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto;

perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto.

Chi tra di voi al figlio che gli chiede un pane darà una pietra?

O se gli chiede un pesce, darà una serpe?

Se voi dunque che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele domandano!

Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti.

Matteo 7, 7-12

Pregare vuol riconoscere che Dio è l’alfa e l’omega della nostra vita, tutto viene da Lui e tutto si compie attraverso di Lui.

Chi ha questa fede scopre la gioia di consegnare tutto nelle mani del Padre, anche e soprattutto i desideri, le ansie, le preoccupazioni.

Lo facciamo senza pretese e senza vantare diritti. A noi basta sapere che Dio ci ascolta e tutto orienta verso il bene.

Il Padre nostro sa di che cosa abbiamo bisogno. Non è importante quello che chiediamo, ma è importante Colui al quale chiediamo.

E la preghiera ha come scopo l’incontro con Dio, l’intima unione con Lui, è un mettersi sull’onda della sua paternità.

Gesù assicura che il Padre celeste risponderà, ma non dice che ci darà esattamente quello che abbiamo chiesto.

Quando accade – e spesso accade! – di non ottenere quello che abbiamo chiesto, non vuol dire che Dio non ascolti o non si prenda cura di noi, vuol dire semplicemente che vuole darci altro e in altri tempi.

Pretendere di conoscere la volontà di Dio significa metterci al posto di Dio.

La preghiera di richiesta non sarebbe autentica, se avesse qualche pretesa, anche minima.

La fiducia è l’anima della preghiera. Se non riceviamo quanto abbiamo chiesto, invece di dare spazio all’amarezza e di chiuderci nello sconforto, rinnoviamo con gioia la nostra fede e chiediamogli la grazia di accogliere con amore la sua volontà, anche se facciamo fatica a comprendere.

Non possiamo misurare la bontà di Dio con le nostre attese! Anche se le nostre intenzioni sono sempre buone, non sempre chiediamo cose buone.

Chi ha più anni sulle spalle, sa per esperienza che tante volte, sospinti dalla fretta di fare qualcosa, abbiamo compiuto scelte sbagliate.

Il silenzio di Dio è un implicito invito a cercare ancora, a guardare più lontano. Dobbiamo dunque continuare a chiedere, senza mai stancarci.

E il Padre Celeste, che ci conosce nel profondo del nostro intimo e ci ha creati, ci ascolterà e saprà darci ciò di cui abbiamo più bisogno.

Il Discorso della Montagna V

UN AMORE LIMPIDO E SINCERO

Beati i poveri, liberi dalle cose per amare Dio e i fratelli

Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano;

accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano.

Perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore.

La lucerna del corpo è l’occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce;

ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!

Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e a mammona.

Matteo 6, 19-24

In questo brano Gesù ci dona due comandamenti: “Non accumulatevi tesori sulla terra… accumulatevi invece tesori nel cielo”.

L’accumulare tesori, il diventare ricco è l’aspirazione di ogni uomo. Nella ricchezza egli cerca di manifestare la sua potenza, la sua superiorità, la sua vanagloria, la sua superbia, ma soprattutto in essa cerca la sicurezza contro tutti i pericoli, compresa la morte, e la possibilità di avere tutte le soddisfazioni che il benessere economico può dare. La ricerca egoistica dei beni materiali sottrae tempo ed energie all’acquisizione dei beni del Cielo e rende l’uomo schiavo delle cose che possiede e desidera.

Ognuno deve avere qualcosa o qualcuno a cui dedicare le sue attenzioni e le sue forze. Il problema è la scelta di questo tesoro a cui attaccare il cuore. L’uomo diventa ciò che ama. Se ama le cose diventa come le cose, se ama Dio diventa come Dio.

L’uso delle cose è buono fino a quando non diventa ostacolo per seguire Cristo e amare i fratelli. Il cristiano non può essere schiavo di nulla e di nessuno perché “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi” (Gal 5, 1). Il cristiano dona l’avere per ottenere l’essere: essere come il Padre.

Il detto evangelico della lucerna del corpo ci presenta la necessità della chiarezza nell’orientamento della vita. La vera luce è Gesù (cfr. Mt 4, 16; Gv 1, 9; 8, 12; ecc.). L’occhio buono è quello che accoglie la luce della rivelazione di Gesù; l’occhio cattivo, quello che la rifiuta. L’occhio che lascia entrare questa luce immerge tutta la persona nella luce, l’occhio che non lascia entrare questa luce immerge tutta la persona nelle tenebre.

L’occhio viene presentato come il simbolo del cuore, della mente. Il cuore dell’uomo dev’essere orientato a Dio e vivere nella ricerca dei tesori del Cielo, allora tutto l’uomo è nella luce. Se invece si perde nella ricerca dei beni materiali diventa cieco e tutta la sua persona è immersa nelle tenebre.

Nella Bibbia l’occhio esprime l’orientamento spirituale della persona. L’occhio buono esprime la giusta relazione con Dio, dal quale l’uomo viene totalmente illuminato (cfr. Sal 4, 7; 36, 10). L’occhio cattivo esprime l’opposizione dello spirito dell’uomo nei confronti di Dio.

Nel vangelo di Matteo l’occhio cattivo è simbolo dell’invidia, dell’avarizia, dell’egoismo (cfr. 20, 15). L’occhio che non accoglie la luce della rivelazione di Gesù diventa ottenebrato. La tenebra totale e definitiva è la perdizione eterna.

Papa Francesco riguardo a questo passo biblico ci insegna:

“Qui è il messaggio di Gesù. Ma se il tuo tesoro è nelle ricchezze, nella vanità, nel potere, nell’orgoglio, il tuo cuore sarà incatenato lì, il tuo cuore sarà schiavo delle ricchezze, della vanità, dell’orgoglio. È quello che Gesù vuole che noi avessimo: un cuore libero. Questo è il messaggio d’oggi. Per favore, abbiate un cuore libero, ci dice Gesù. Ci parla della libertà del cuore.

E un cuore libero si può avere soltanto con i tesori del Cielo: l’amore, la pazienza, il servizio agli altri, l’adorazione a Dio. Queste sono le vere ricchezze che non vengono rubate. Le altre ricchezze appesantiscono il cuore, lo incatenano, non gli danno la libertà“.

Beati i poveri: riporre la sicurezza non nelle cose ma in Dio

Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito?

Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro?

E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita?

E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano.

Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro.

Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede?

Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?

Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno.

Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta.

Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena.

Matteo 6, 25-34

I brani di Vangelo che vi presento oggi ci aiutano a rivedere il rapporto con i beni materiali e presenta due temi di diversa portata.

Il primo brano descrive il nostro rapporto con il denaro (Mt 6, 19-24) e il secondo il nostro rapporto con la Provvidenza Divina (Mt 6, 25-34).

Gesù è molto chiaro nella sua affermazione: “Nessuno può servire due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire Dio e mammona.” Ognuno dovrà fare la propria scelta. Dovrà chiedersi: “Chi pongo al primo posto nella mia vita. Dio o il denaro?” Da questa scelta dipenderà la comprensione dei consigli che seguono sulla Provvidenza Divina (Mt 6,25-34). Non si tratta di una scelta fatta solo con la testa, bensì di una scelta di vita ben concreta che ha a che fare anche con gli atteggiamenti.

Gesù critica la preoccupazione eccessiva per il mangiare e il bere. Questa critica di Gesù causa fino ai nostri giorni molto spavento nella gente, perché la grande preoccupazione di tutti i genitori è come procurarsi cibo e vestiti per i figli. Il motivo della critica è che la vita vale più del cibo e il corpo vale più del vestito. Per chiarire la sua critica, Gesù presenta due parabole: i passeri e i fiori.

La parabola degli uccelli: la vita vale più del cibo. Gesù ordina di guardare gli uccelli. Non seminano, non raccolgono, ma hanno sempre da mangiare perché il Padre del Cielo li alimenta. “Non contate voi, forse, più di loro!”

Gesù critica il fatto che la preoccupazione per il cibo occupi tutto l’orizzonte della vita delle persone, senza lasciare spazio a sperimentare e gustare la gratuità della fraternità e dell’appartenenza al Padre. Per questo, il sistema neoliberale è criminale perché obbliga la gran maggioranza delle persone a vivere 24 ore al giorno, preoccupandosi del cibo e del vestito, e produce ad una minoranza ricca assai limitata l’ansia di comprare e consumare fino al punto da non lasciare spazio a null’altro.

Gesù dice che la vita vale più dei beni di consumo! Il sistema neoliberale impedisce di vivere il Regno.

La parabola dei gigli: il corpo vale più del vestito. Gesù chiede di guardare i fiori, i gigli del campo. Con che eleganza e bellezza Dio li veste! “Ora, se Dio veste così l’erba del campo, non farà assai più per voi, gente di poca fede!”

Gesù dice di guardare le cose della natura, perché così vedendo i fiori e il campo, la gente ricordi la missione che abbiamo: lottare per il Regno e creare una convivenza nuova che possa garantire il cibo e il vestito per tutti.

Gesù riprende e critica la preoccupazione eccessiva per il cibo, la bevanda e il vestito. E conclude: “Di queste cose si preoccupano i pagani!”

Ci deve essere una differenza nella vita di coloro che hanno fede in Gesù e di coloro che non hanno fede in Gesù. Coloro che hanno fede in Gesù condividono con Lui l’esperienza della gratuità di Dio Padre. Questa esperienza di paternità deve rivoluzionare la convivenza. Deve generare una vita comunitaria che sia fraterna, seme di una nuova società.

Gesù indica due criteri per essere suoi discepoli: “Cercare prima il Regno di Dio” e “Non preoccuparsi per il domani”.

Cercare in primo luogo il Regno e la sua giustizia significa cercare di fare la volontà di Dio e lasciare regnare Dio nella nostra vita.

La ricerca di Dio si traduce, concretamente, nella ricerca di una convivenza fraterna e giusta. Dove c’è questa preoccupazione per il Regno, nasce una vita comunitaria in cui tutti vivono da fratelli e sorelle e a nessuno manca nulla. Lì non ci si preoccuperà del domani, cioè non ci si preoccuperà di accumulare.

Cercare prima il Regno di Dio e la sua giustizia. Il Regno di Dio deve stare al centro di tutte le nostre preoccupazioni.

Il Regno richiede una convivenza, dove non ci sia accumulazione, ma condivisione in modo che tutti abbiano il necessario per vivere.

Il Regno è la nuova convivenza fraterna, in cui ogni persona si sente responsabile dell’altra. Questo modo di vedere il Regno aiuta a capire meglio le parabole dei passeri e dei gigli, perché per Gesù la Provvidenza Divina passa attraverso l’organizzazione fraterna.

Preoccuparsi del Regno e della sua giustizia è lo stesso che preoccuparsi di accettare Dio Padre ed essere fratello e sorella degli altri. Dinanzi all’impoverimento crescente causato dal neoliberalismo economico, la forma concreta che il Vangelo ci presenta e grazie alla quale i poveri potranno vivere è la solidarietà e l’organizzazione.

Un coltello affilato in mano ad un bambino può essere un’arma mortale. Un coltello affilato in mano ad una persona appesa ad una corda è l’arma che salva.

Così sono le parole di Gesù sulla Provvidenza Divina. Sarebbe antievangelico dire ad un padre disoccupato, povero, con otto figli, e moglie malata: “Non ti preoccupare del cibo e delle bevande! Perché preoccuparsi del vestito e della salute?” (cfr. Mt 6, 25.28). Questo possiamo dirlo solo quando noi stessi, imitando Gesù, ci organizziamo tra di noi per condividere, garantendo così al fratello la possibilità di sopravvivere. Altrimenti, siamo come i tre amici di Giobbe che, per difendere Dio, raccontavano menzogne sulla vita umana (Giobbe 1-3, 7). Sarebbe come ingannare un orfano e un amico (Giobbe 1-7).

In bocca al sistema dei ricchi, queste parole posso essere un’arma mortale contro i poveri. In bocca al povero, possono essere uno sbocco reale e concreto per una convivenza migliore, più giusta e fraterna.

Il Discorso della Montagna IV

UN AMORE LIMPIDO E SINCERO

Puri di cuore nel servizio ai poveri: l’elemosina

Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli.

Quando dunque fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade per essere lodati dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa.

Quando invece tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra,

perché la tua elemosina resti segreta; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.

Matteo 6, 1-4

In questi versetti Gesù ci indica la nuova pratica delle opere di pietà. Ci parla dei capisaldi della spiritualità: l’elemosina, il digiuno e la preghiera.

Essi definiscono, rispettivamente, il nostro rapporto col fratello (l’elemosina), col Padre (la preghiera) e con noi stessi e le cose (il digiuno). E sono i tre ambiti della vita dell’uomo: gli altri, l’altro, me stesso e le cose.

Guardando alcuni religiosi del tempo Gesù si accorge che la loro spiritualità è falsa per un semplice motivo: questi uomini hanno confuso il senso del loro fare. Cioè pur facendo cose buone, non le fanno per Dio, ma per se stessi, per essere lodati dagli uomini. Come si può sfruttare le logiche più gratuite della vita come la preghiera ad esempio per riceverne onori?

Gesù dunque critica coloro che fanno il bene per essere visti e ammirati dagli altri uomini.

Gesù chiede di costruire la sicurezza interiore non in ciò che noi facciamo per Dio, ma in ciò che Dio fa per noi.

Dai consigli che lui dà emerge un nuovo tipo di rapporto con Dio: “Tuo Padre, che vede nel segreto, ti ricompenserà” (Mt 6, 4). “Vostro Padre sa di cosa avete bisogno, prima che voi glielo chiediate” (Mt 6, 8). “Se perdonate agli uomini le loro colpe, anche il Padre vostro vi perdonerà” (Mt 6,14).

È un cammino nuovo, che si apre ora, per accedere al cuore di Dio Padre. Gesù non permette che la pratica della giustizia e della pietà siano usate quale mezzo di autopromozione dinanzi a Dio e dinanzi alla comunità.

Dare l’elemosina è un modo di condividere, assai raccomandato dai primi cristiani (cfr. At 2, 44-45; 4, 32-35). La persona che pratica l’elemosina e la condivisione per promuovere se stessa dinanzi agli altri, merita di essere esclusa dalla comunità, come avvenne con Anania e Safira (cfr. At 5, 1-11).

Oggi, sia nella società come pure nella Chiesa, ci sono persone che intraprendono una grande pubblicità del bene che compiono agli altri. Gesù chiede il contrario: fare il bene in modo tale che la mano sinistra non sappia ciò che fa la destra.

È il distacco totale e il dono totale nella gratuità dell’amore, che crede in Dio Padre e imita tutto ciò che fa.

Puri di cuore nella preghiera

Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa.

Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.

Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole.

Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate.

Voi dunque pregate così:

Padre nostro che sei nei cieli,

sia santificato il tuo nome;

venga il tuo regno;

sia fatta la tua volontà,

come in cielo così in terra.

Dacci oggi il nostro pane quotidiano,

e rimetti a noi i nostri debiti

come noi li rimettiamo ai nostri debitori,

e non ci indurre in tentazione,

ma liberaci dal male.

Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi;

ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.

Matteo 6, 5-15

In questi versetti Gesù ci insegna come praticare la preghiera.

La preghiera pone la persona in rapporto diretto con Dio.

Alcuni farisei trasformavano la preghiera in un’occasione per mostrarsi ed esibirsi dinanzi agli altri. In quel tempo, quando suonava la trombetta nei tre momenti di preghiera, mattina, mezzogiorno e sera, loro dovevano fermarsi nel luogo dove stavano per pregare. C’era gente che cercava di stare negli angoli in luoghi pubblici, in modo che tutti vedessero che stava pregando.

Un atteggiamento di questo tipo rovina il nostro rapporto con Dio. È falso e non ha senso.

Per questo, Gesù dice che è meglio chiudersi nella stanza e pregare in segreto, mantenendo l’autenticità del rapporto. Dio ti vede anche nel segreto, e Lui ti ascolta sempre.

Il digiuno

E quando digiunate, non assumete aria malinconica come gli ipocriti, che si sfigurano la faccia per far vedere agli uomini che digiunano. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa.

Tu invece, quando digiuni, profumati la testa e lavati il volto,

perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo tuo Padre che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.

Matteo 6, 16-18

In quel tempo la pratica del digiuno era accompagnata da alcuni gesti esterni ben visibili: non lavare il volto, non allisciarsi i capelli, usare vestiti sobri.

Erano segnali visibili del digiuno.

Gesù critica questa forma di digiuno e ordina di fare il contrario, così gli altri non possono rendersi conto che si sta digiunando: fatti il bagno, usa il profumo, arricciati bene i capelli.

In questo modo solo il Padre, che vede nel segreto, sa che tu stai digiunando e lui saprà ricompensarti.

Digiunare significa che la mia vita non è il cibo, bensì il mio cibo è far la volontà del Padre.

“Non di solo pane vive l’uomo ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (cfr. Deuteronomio 8, 3).

L’astensione dal pane e dal cibo in generale, diventa atteggiamento di attesa e di disponibilità ad accogliere con gusto e con appetito la Parola del Signore che ci nutre.

Quindi il primo senso del digiuno è affermare che la vita non è il cibo, ma la comunione con Dio e l’ascolto della Parola.

Se digiuniamo, il Padre ci ricompenserà dandoci la nostra identità. Proprio attraverso il digiuno, ci riconosciamo figli, come persone che ricevono la vita e che sanno che la vita è la comunione col Padre.

Quindi la ricompensa è di riconoscere noi come figli e Lui come Padre e riconoscere, nell’uso dei beni e del cibo, la vita eterna che è Lui.

Il Discorso della Montagna III

UN AMORE SENZA CONDIZIONI

Beati i miti: vincere il male con il bene

Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente;

ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra;

e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello.

E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due.

Dà a chi ti domanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle.

Matteo 5, 38-42

La frase “occhio per occhio e dente per dente” riporta la legge del taglione (Es 19,15-51; 21,24; Lv 24,20), è uno dei capisaldi delle legislazioni antiche (Codice di Hammurabi e Legge delle dodici tavole). Essa doveva sostituire la legge della vendetta di sangue (Gen 4,23). Al tempo di Gesù la legge del taglione era ancora vigente, ma poteva essere sostituita con un risarcimento in denaro.

La non-violenza richiesta da Gesù non è vile rassegnazione, ma forza e intraprendenza dell’amore. La potenza dell’impotenza ha la sua più alta manifestazione in Gesù che “fu crocifisso per la sua debolezza, ma vive per la potenza di Dio” (2Cor 13,4) e poggia sulla fede che l’impotenza della croce vince il male.

Con il principio della non-violenza Gesù contrappone alla mentalità giuridica dell’Antico Testamento il nuovo ideale dell’amore. Il male perde la sua forza d’urto solo quando non trova resistenza.

La Chiesa perseguitata ha assunto questo atteggiamento comandato da Gesù: “Gli apostoli se ne andarono dal sinedrio lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù” (At 5,41).

I quattro esempi elencati da Matteo hanno lo scopo di illustrare il comandamento: “Ma io vi dico di non opporvi al malvagio”.

Lo schiaffo sulla guancia destra è particolarmente doloroso e oltraggioso perché è un manrovescio. Gesù flagellato e schiaffeggiato conferma con il suo esempio la validità del suo insegnamento (Mt 26,67; Is 50,6).

La lite giudiziaria con chi pretende la tunica come caparra o come risarcimento danni, non ha più senso per il discepolo di Gesù, anzi, egli non farà valere per sé neppure il comandamento che vietava il pignoramento del mantello del povero e il dovere di restituirglielo prima del tramonto del sole (Es 22,25; Dt 24,13): egli darà la tunica e il mantello senza opporre resistenza.

Il terzo esempio che mette il discepolo a confronto con la violenza è quello della requisizione da parte di autorità militari o statali per costringerlo a prestazioni forzate. Ne abbiamo un esempio in Mt 27,32: “Mentre uscivano, incontrarono un uomo di Cirene, chiamato Simone, e lo costrinsero a prendere su la croce di lui”.

Il miglio (= 1478,70 metri) era una misura romana e quindi richiama concretamente la dominazione dell’impero di Roma al tempo di Gesù e dell’evangelista. Quando gli saranno imposte queste prestazioni forzate, il discepolo di Gesù non deve ribellarsi o coltivare astio nel cuore, ma prestarsi liberamente e di buon animo a fare con gioia il doppio di quanto esige da lui la prepotenza del malvagio.

Il quarto esempio ci presenta i poveri e i richiedenti. Essi non sono dei nemici o dei malvagi, ma possono suscitare una reazione violenta a causa delle cattive esperienze fatte in precedenza. Leggiamo nel Libro del Siracide 29,4-10: “Molti considerano il prestito come una cosa trovata e causano fastidi a coloro che li hanno aiutati. Prima di ricevere, ognuno bacia le mani del creditore, parla con tono umile per ottenere gli averi dell’amico; ma alla scadenza cerca di guadagnare tempo, restituisce piagnistei e incolpa le circostanze. Se riesce a pagare, il creditore riceverà appena la metà e dovrà considerarla come una cosa trovata. In caso contrario il creditore sarà frodato dei suoi averi e avrà senza motivo un nuovo nemico; maledizioni e ingiurie gli restituirà, renderà insulti invece dell’onore dovuto. Tuttavia sii longanime con il misero e non fargli attendere troppo l’elemosina. Per il comandamento soccorri il povero secondo la sua necessità, non rimandarlo a mani vuote. Perdi pure denaro per un fratello e amico, non si arrugginisca inutilmente sotto una pietra”.

La motivazione del comandamento: “Dà a chi ti domanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle” sarà evidenziata nel seguito del vangelo da Gesù stesso che ci comanda la conformità con il comportamento del Padre: “Il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele domandano” (Mt 7,11).

Attraverso questi atteggiamenti i discepoli si dimostrano amici dei loro nemici e tentano di cooperare con Dio per il ravvedimento degli ingiusti e dei malvagi come ha fatto Gesù. San Paolo ha sintetizzato questo insegnamento nella lettera ai Romani (Rm 12,21): “Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male”.

Se questi princìpi e questi comportamenti entrassero nella società odierna, essa non solo non ne avrebbe un danno, ma vedrebbe migliorare i rapporti umani più di quanto possono ottenere tutti gli apparati della giustizia, della prevenzione e della repressione.

Beati i misericordiosi: amare anche chi non ci ama

Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico;

ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori,

perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti.

Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani?

E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?

Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste.

Matteo 5, 43-48

Logica stringente e scomoda, verità ineccepibile e che pure dimentichiamo: Gesù ci chiede in cosa si distingue la nostra vita da quella degli altri, dai fratelli che non credono.

Amare coloro che ci amano, ascoltare i simpatici o chi ci fa i complimenti è la cosa più semplice e istintiva che possiamo fare. Ma l’atteggiamento del discepolo va oltre: cerca ragioni e dialogo, non mette sé al centro, ma l’altro, compatisce le proprie e le altrui debolezze e fragilità.

Difficile e improponibile, se ciò viene vissuto come una specie di eroico sacrificio. Possibile, se questo diventa estensione dello stile di vita di Dio in noi.

Perciò Gesù ci chiede di imitare il Padre nel suo amare chiunque, nell’aspettare pazientemente che anche il figlio più lontano e ostinato alla fine si converta.

Apriamo il cuore alla nuova logica di Dio, oggi, con le persone antipatiche, con chi ci vuole fare le scarpe in ufficio, con dignità e verità sappiamo andare oltre l’istinto, il moto di stizza o di nervosismo; con semplicità e verità vogliamo bene, cioè auguriamo il bene a tutti coloro che incontriamo sul nostro cammino.

Un ultimo appunto: per evitare eccessi o che un cristiano si senta in dovere di essere diverso, migliore, perfetto, san Luca riporta le stesse ammonizioni, e corregge Matteo dicendo: “Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro che è nei cieli”. La perfezione di Dio non consiste in una specie di asettica e benevola superiorità, ma in un incontro tra la nostra miseria e il suo cuore, la misericordia, appunto, di chi sa guardare alla povertà con comprensione e cordialità.

Rendici misericordiosi, oggi: che la tua perfezione di amore si rifletta, un poco almeno, nell’accoglienza che sapremo dare a tutti i fratelli che oggi incontreremo, Dio benedetto nei secoli!

Il Discorso della Montagna II

UN AMORE SENZA CONDIZIONI

Beati i miti: liberare il cuore da ogni violenza

Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio.

Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna.

Beati gli operatori di pace: prendere l’iniziativa della riconciliazione

Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te,

lascia lì il tuo dono davanti all’altare e và prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono.

Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei per via con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia e tu venga gettato in prigione.

In verità ti dico: non uscirai di là finché tu non abbia pagato fino all’ultimo spicciolo!

Matteo 5, 21-26

In questo punto del Discorso della Montagna, Gesù introduce ogni volta una citazione dall’Antico Testamento («avete inteso che fu detto»), che riprende e commenta («e io vi dico»), per attualizzare la Legge data a Mosè e intensificarla.

Il primo comandamento affrontato è: “Non uccidere”. Per osservare pienamente questo comandamento non basta evitare l’assassinio. 

In tutte le relazioni umane occorre frenare l’aggressività, spegnere la collera prima che diventi violenza, fermare la lingua che può uccidere con la parola. Prima di diventare azione, la violenza cova nel cuore umano, e a questo istinto occorre fare resistenza.

L’astenersi dalla violenza è più decisivo di un’azione di culto fatta a Dio, il quale vuole la riconciliazione tra noi fratelli prima della riconciliazione con Lui; anche perché la riconciliazione con Lui che nessuno vede è possibile solo per chi sa riconciliarsi con il fratello che ciascuno vede (cfr. 1Gv 4,20).

Eppure noi sentiamo il bisogno di scaricare il male che ci abita, dicendo poco o tanto male di qualcuno. Usiamo la parola come una pietra scagliata, dicendo: “Quello è uno stupido, uno scemo!”, e così autorizziamo chi ci ascolta a ritenere una persona da evitare colui che abbiamo definito tale. Del resto, già i rabbini dicevano che “chi odia il suo prossimo è un omicida”. Ecco dunque svelata la profondità del comandamento: “Non ucciderai”, che significa anche “Sii mite, dolce, e sarai beato” (cfr. Mt 5,5).

Beati i puri di cuore: vivere nell’amore con verità e sacrificio

Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio;

ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore.

Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geenna.

E se la tua mano destra ti è occasione di scandalo, tagliala e gettala via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geenna.

Fu pure detto: Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto di ripudio;

ma io vi dico: chiunque ripudia sua moglie, eccetto il caso di concubinato, la espone all’adulterio e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio.

Matteo 5, 27-32

Dopo la violenza viene la sessualità, materia della seconda e della terza antitesi.

Si comincia con: “Non commetterai adulterio” (Es 20,14; Dt 5,18).

Ma per Gesù questo non è sufficiente. Occorre fare i conti con il desiderio che abita il cuore umano: se infatti uno desidera il possesso, se con il suo sguardo cerca di possedere l’altro, se con la sua brama non vede più la persona, ma solo una cosa di cui impadronirsi, allora anche se non arriva a consumare il peccato è già adultero nel suo cuore.

Se si fa attenzione, qui Gesù sposta la colpa dalla donna sedotta, giudicata sempre lei come peccatrice e causa di peccato, a chi seduce e non sa resistere al desiderio.

Tutto il corpo, e soprattutto i sensi attraverso i quali viviamo le relazioni con gli altri, devono essere dominati, ordinati e anche accesi dalla potenza dell’amore, non dall’eccitazione delle passioni.

Certamente non è facile questa vigilanza e questa disciplina del cuore, ma non è possibile scindere la mente, il cuore e i sensi dalla sessualità. Proprio per questo Gesù ribadisce (e lo farà più ampiamente in Mt 19,1-9) che Dio non vuole il ripudio, l’infrazione dell’alleanza nuziale, non vuole la contraddizione alla storia d’amore sigillata nella pur faticosa avventura della vita.

Beati i puri di cuore: essere sinceri con Dio e i fratelli

Avete anche inteso che fu detto agli antichi: Non spergiurare, ma adempi con il Signore i tuoi giuramenti;

ma io vi dico: non giurate affatto: né per il cielo, perché è il trono di Dio;

né per la terra, perché è lo sgabello per i suoi piedi; né per Gerusalemme, perché è la città del gran re.

Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello.

Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno.

Matteo 5, 33-37

La quarta antitesi riguarda la verità nei rapporti tra le persone. È l’ottavo comandamento dato al Sinai: “Non dirai falsa testimonianza” (Es 20,16; Dt 5,20).

Gesù conosce bene quello che gli esseri umani vivono: incapaci di vivere la fiducia nelle relazioni reciproche, giungono a giurare, a chiamare Dio come testimone (cfr. Es 20,7; Lv 19,12; Dt 23,22).

Così avviene nel mondo, così fan tutti, ma ecco la radicalità di Gesù: “Io vi dico di non giurare mai, né per il cielo, perché è il trono di Dio, né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi, né per Gerusalemme, perché è la città del grande Re”.

Alla casistica della tradizione Gesù oppone la semplicità del linguaggio, la verità delle parole: Gesù invita alla responsabilità della parola. Il parlare di ciascuno dev’essere talmente limpido da non aver bisogno di chiamare Dio o le realtà sante a testimone di ciò che si esprime. Non sono necessari garanti della verità che si esprime, e invocare il castigo, la sanzione di Dio per ciò che si è detto come non vero o per ciò che non si è realizzato, è sbagliato. Dio non è al nostro servizio e non interviene certo a punire le nostre menzogne, almeno durante la nostra vita.

E allora quando uno dice sia “sì”, sia “sì”, e quando dice “no”, sia “no”, perché il di più viene dal Maligno”, che “è menzognero e padre della menzogna” (Gv 8,44). Nessun “cuore doppio” (Sal 12,3), nessuna possibilità di simulazione per il discepolo di Gesù, nessun tentativo di dire insieme “sì” e “no”.

Non è forse Gesù stesso “l’Amen di Dio” (cfr. Ap 3,14), il “Sì” di Dio alle sue promesse, come predica Paolo (cfr. 2Cor 1,19-20)? L’essere umano rispetto agli animali ha il privilegio della parola, ma questo mezzo così umanizzante per sé e per gli altri è uno strumento fragile… Il dominio della parola è davvero alla base della sapienza umana.

Quella di Gesù non è dunque una “nuova legge”, una “nuova morale”, ma è l’insegnamento di Dio dato a Mosè, interpretato con autorità, risalendo all’intenzione del Legislatore stesso, Dio. Solo Gesù, il Figlio di Dio, poteva fare questo.

Il Discorso della Montagna

Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini.

Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa.

Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli.

Matteo 5, 13-16

Sale e luce. Due potenti immagini che rendono l’idea di cosa dovremmo essere nel mondo.

La caratteristica principale del sale e della luce consiste nella loro invisibilità. 

Il sale dà sapore alle cose, ma per farlo scompare alla vista. Ci si accorge della sua presenza solo quando si mangia una pietanza. Finché è riconoscibile come sale non è utile. Per esserlo deve scomparire nella sua consistenza propria e per questo cambia le cose nel loro sapore. 

La fede, e la testimonianza della fede, allo stesso modo sono significative non solo quando si pongono come riconoscibili agli occhi del mondo, ma quando silenziosamente cambiano il sapore del mondo, il suo senso più profondo.

Così un medico è riconoscibile come cristiano, dalla qualità del suo essere medico. Un giardiniere, dalla cura con cui coltiva le sue piante. Una madre, dalla tenerezza con cui esercita la sua maternità. 

Un cristiano ovunque si trova non può lasciare le cose uguali, le cambia, le insaporisce, le rende significative. In questo senso il cristianesimo non pianta tanto bandierine di conquista, ma ha la pazienza di trasformare le cose da dentro.

Ha ragione papa Benedetto XVI quando ha detto che il cristianesimo si propaga non per proselitismo ma per attrazione. 

Allo stesso modo la luce in sé è invisibile, diventa visibile solo quando si scontra con un oggetto e lo rivela. Noi dovremmo essere quella luce che rivela le cose, i volti soprattutto della gente, la loro unicità, diversità, bellezza nascosta. 

Un cristiano valorizza i dettagli, dà dignità a ciò che il mondo scarta, rende visibili gli invisibili della storia.

Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento.

In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno dalla legge, senza che tutto sia compiuto.

Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli.

Poiché io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli.

Matteo 5, 17-20

Nel Discorso della Montagna, l’evangelista Matteo raccoglie l’insegnamento morale che Gesù impartisce ai suoi discepoli, dopo aver annunciato la novità del regno di Dio.

Accogliere il regno di Dio esige un cambiamento radicale di mentalità: si tratta di scegliere un nuovo progetto di vita.

Gesù descrive questo nuovo progetto di vita, che porta a compimento le esigenze contenute nell’antico progetto di vita dei dieci comandamenti. Gesù conferma la loro validità, ma insieme li perfeziona e li riconduce all’unità dell’amore.

Non basta un osservanza esteriore dei comandamenti.
Questa deve partire dall’intimo del cuore, da un amore vero per Dio e per il prossimo.

I comandamenti indicano il grado minimo di questo amore. Ma Gesù vuole che i suoi discepoli non si fermino qui. Non è sufficiente non fare del male a chi ce ne ha fatto, bisogna fargli del bene. Questo è il modo rivoluzionario di pensare e di agire di Gesù per mostrare l’Amore di Dio!

Ma i comandamenti e le parole di Gesù cadono in un cuore inclinato al male, chiuso, egoista, schiavo delle passioni: un cuore capace di stravolgere tutto, anche di trasformare in ipocrisia gli atti di culto a Dio e di amore verso il prossimo.

Ci vuole un cuore nuovo, libero e aperto. Con il suo amore obbediente fino alla morte, con la forza della sua Resurrezione e con il dono dello Spirito, Gesù dà all’uomo, che si affida a lui, questo cuore nuovo, capace di amare sull’esempio di Dio. Già il profeta Ezechiele, rivelava: “Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne” (Ez 36, 26).

Dio ci ha amato per primo, quando eravamo peccatori; dunque anche noi dobbiamo fare il primo passo verso i fratelli che ci hanno offeso o che abbiamo offeso.

Dio ama tutti, buoni e cattivi, su tutti fa sorgere il sole del suo Amore; così anche noi dobbiamo amare tutti senza distinzione.

Gesù ci ha amati fino al sacrificio di sé. “Amatevi come io vi ho amato” (Gv 15,12).
È il comandamento nuovo di Gesù. Gesù ha dato la vita per noi. Dunque, conclude l’apostolo Giovanni, anche noi dobbiamo dare la vita per i nostri fratelli (cfr 1 Gv 3,16). Perché amore più grande non c’è che dare la vita per chi si ama (cfr Gv 15,13).

L’Amore di Gesù è la legge di vita del discepolo e amare come Gesù è il centro vivo del progetto di Dio.

Solo un cuore pieno di amore può comunicare amore. Nessuno dà quello che non ha. Ma il cuore dell’uomo è una cisterna vuota se egli non si apre a Dio per riempirsi del suo amore.

Il discepolo di Gesù è chiamato a non tenere per sé l’amore ricevuto da Dio. Deve manifestarlo e comunicarlo.

Il cristiano ama perché è amato da Dio. Ama ogni persona umana perché ogni persona umana è amata da Dio come un figlio. Non è possibile amare il padre senza amare il figlio. Non è possibile amare Dio senza amare il prossimo. Chi dice di amare Dio senza amare il fratello è un bugiardo (cfr 1 Gv 4,20).

Le parole del Discorso della Montagna acquistano significato soltanto in questo orizzonte di lettura. Amare il prossimo con il cuore di Dio.

L’insegnamento di Gesù nel Discorso della Montagna è un punto di riferimento costante e una guida sicura della coscienza morale del cristiano.

La via delle Beatitudini – XIII

Nella lunga storia del Cristianesimo, molti discepoli di Gesù hanno vissuto fedelmente il suo messaggio nella semplicità della vita quotidiana e nell’anonimato della gente comune, sconosciuti agli uomini, ma non a Dio.

Ve ne sono altri che hanno dato la testimonianza più visibile ed esemplare di una vita secondo le Beatitudini, incarnandole nel loro momento storico.

I santi non sono prima di tutto eroi della volontà o campioni dell’intelligenza. Sono i capolavori di Dio e del suo Spirito. Sono i veri discepoli di Gesù che hanno seguito fino in fondo il Maestro, vivendo con radicalità il messaggio delle Beatitudini. I santi sono totalmente relativi a Gesù. Senza di lui sono nessuno.

Con la loro vita dicono a tutti: “Vivere l’ideale delle Beatitudini è possibile. Anche tu puoi. Basta che tu voglia, basta che tu ti apra ad accogliere l’aiuto di Dio”.

La via della felicità vera e duratura non è la via del piacere, del denaro, del successo, dell’affermazione di sé, della vendetta, della negazione di Dio. Non è la via del “tutto e subito a qualunque costo”.

La via della felicità è paradossalmente la via del sacrificio, della pazienza, della rinuncia a se stessi, del perdono generoso, della fedeltà alla coscienza, distacco dalle cose, della fede in Dio…

È una via che non ha scorciatoie, che esige l’impegno di ogni giorno, sulla quale si avanza piccoli passi.

La via della felicità delle Beatitudini di Gesù.

Eccovi alcuni esempi di donne e di uomini del nostro tempo, che sono stati capaci di vivere le Beatitudini nella loro vita.

Padre Massimiliano Kolbe, francescano perseguitato dal nazismo, che nel campo di concentramento di Auschwitz prende il posto di un padre di famiglia condannato a morte.

Raoul Follereau, che ha dato tutta la vita per i lebbrosi.

Papa Giovanni XXIII, uomo mite, dedito a cercare ciò che unisce e a superare ciò che divide.

Roger Schutz, fondatore della comunità ecumenica di Taizé, che ha dedicato la vita per portare pace e unità nelle Chiese cristiane.

Martin Luther King, pastore protestante, ucciso a causa del suo impegno non violento per il superamento delle discriminazioni razziali negli Stati Uniti.

Madre Teresa di Calcutta, suora, che in India e nel mondo si è messa a servizio dei più poveri tra i poveri.

Marcello Candia, ricco imprenditore, che lascia tutto per andare in Brasile a servire i poveri.

Benedetta Bianchi Porro, una ragazza che, giunta alle soglie della laurea in medicina, vive una terribile malattia con una fede luminosa.

Chiara Luce Badano, appartenente al movimento dei focolari, morì poco prima di compiere 19 anni a causa di un osteosarcoma. È nota per la sua dedizione alla cura di bambini e anziani e il suo comportamento definito «eroico» davanti alla malattia.

Carlo Acutis, che fin da piccolo visse la fede in ogni aspetto della sua vita: a soli sette anni si accostò alla Prima Comunione. La sua devozione, rivolta in particolare, oltre che all’Eucaristia (che chiamava «La mia autostrada per il Cielo»), alla Madonna, lo portava quotidianamente a partecipare alla Santa Messa e a recitare il rosario. I suoi modelli erano i santi Francisco e Jacinta Marto, san Domenico Savio, san Luigi Gonzaga e san Tarcisio. Oltre agli interessi normali di un adolescente, si adoperava anche per aiutare gli ultimi. Tra le sue passioni c’era l’informatica, per la quale mostrava un grande talento, e della quale si serviva per testimoniare la fede attraverso la realizzazione di siti web. Nel 2006 si ammalò improvvisamente di leucemia fulminante, a causa della quale morì in soli tre giorni, dopo aver offerto le sue sofferenze per il Papa e per la Chiesa.

Papa Giovanni Paolo II, una figura straordinaria che ha segnato la storia del Novecento e della Chiesa. Un uomo che ha saputo impartirci una chiara lezione di vita sulla sofferenza, il dolore e la morte. Da quella cattedra della sofferenza, ha saputo continuare a insegnare con la testimonianza della sua vita e del suo dolore. Un papa, che infaticabilmente ci ha indicato costantemente Cristo: ci ha invitato a guardare a Lui, a ripartire da Lui: «Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!»

La via delle Beatitudini – XII

Oggi ritorniamo al tema delle Beatitudini, dopo la lunga pausa estiva.

Nell’enunciato di ciascuna delle Beatitudini c’è una tensione tra la prima parte, che descrive una situazione umanamente negativa e la seconda, che evoca un avvenire del tutto diverso.

Avvenire garantito da una promessa di Dio, portatrice di speranza.

Avvenire che comincia nella storia, nel mondo presente, ma che avrà compimento oltre la storia, nel regno di Dio.

Se si svuota la dimensione di futuro delle Beatitudini e la si riduce dentro un orizzonte puramente storico, si perde il senso dato loro da Gesù.

Basta infatti uno sguardo a quello che capita oggi nel mondo, a quello che è avvenuto nella storia, per vedere che la condizione umana è segnata dalla povertà di molti e dalla ricchezza dei pochi, dalla sofferenza e dal pianto dei miseri, dal forte che opprime impunemente il debole, dal cattivo che elimina l’innocente…

I poveri e gli oppressi muoiono poveri e oppressi, senza aver potuto vedere il giorno della liberazione e senza avere avuto dalla vita neppure un momento di felicità. Una storia che dura da millenni e di fronte alla quale, nonostante gli innegabili progressi, l’uomo appare impotente.

Su questa storia triste sembra stendersi il silenzio, il non intervento di Dio. Sembra che la violenza abbia via libera per dominare incontrastata. Per il credente nasce l’interrogativo: chi è il signore della storia? Dio o il peccato?

Con l’annuncio delle Beatitudini, Gesù proclama solennemente: contro l’incomprensibile storia di sofferenza e di ingiustizia, che lo sforzo umano con tutte le sue risorse di intelligenza e di volontà non riesce a debellare, entra in azione Dio stesso. Nonostante tutte le apparenze, è Dio il Signore della storia. Dio è giusto e renderà giustizia ai poveri e agli oppressi, darà la gioia agli afflitti.

Le Beatitudini rivelano il cuore di Dio: Egli vuole la vita e la gioia per tutti gli uomini, e non la morte. Gesù ci assicura che questa volontà si realizzerà infallibilmente.

Le Beatitudini sono il “no” assoluto e definitivo di Dio al male e alla sofferenza e la certezza che il senso della vita e della storia sono la pace e la gioia senza fine. La felicità di cui parlano le Beatitudini è perciò legata alla promessa di Dio, che dà all’uomo una meravigliosa speranza. La speranza anticipa nel presente, ciò che deve avvenire nel futuro.

Il messaggio delle Beatitudini è totalmente stravolto, se viene inteso come rassegnazione passiva al male, all’oppressione, alla sofferenza nel presente, in attesa di una felicità futura.

Le Beatitudini sono un appello a scegliere il progetto di vita in esse contenuto. L’annuncio della volontà e dell’azione di Dio diventa per l’uomo un preciso impegno morale. La felicità promessa è “condizionata” a chiare scelte.

Il “no” assoluto di Dio alla sofferenza, al peccato, all’ingiustizia esige da parte dell’uomo:

  • l’accettazione gioiosa della propria condizione di povero di fronte a Dio, la fede in Lui, il rifiuto della propria autosufficienza;
  • l’impegno concreto di tutte le forze creative dell’amore per vincere le sofferenze, le divisioni, le ingiustizie e portare consolazione, pace e giustizia;
  • la decisione di essere veri e sinceri nei rapporti con il prossimo, di avere sempre intenzioni rette nell’agire, evitando la doppiezza;
  • il rifiuto della violenza come via per la giustizia e la felicità, unito alla scelta di vincere il male con il bene e con il perdono generoso;
  • la disposizione a fare il bene secondo la volontà di Dio, anche a costo di persecuzioni e della stessa morte.

Ma più l’uomo si impegna attivamente con la forza dell’amore a lottare contro ogni male in sé e fuori di sé, più sperimenta l’impotenza umana a vincere “tutti” i mali. Esiste una sofferenza che nessun uomo può vincere e dalla quale solo Dio può liberarci. Con la parola e con la vita, Gesù ci assicura che Dio porterà a compimento l’opera di liberazione. Egli infatti ha sofferto durante la sua passione, ha offerto la propria vita morendo in croce, una tortura atroce e umiliante, una morte infame e scandalosa, ed è risorto, per affermare definitivamente che il peccato, la malattia e la morte non hanno più potere, ma sono state vinte da Gesù. Egli è più che vincitore nella lotta contro il male.

Dio rifiuta di approvare la prepotenza del male e si pone come garante della vittoria definitiva del bene su tutte le forze del male. Per questo le Beatitudini sono il più grande messaggio di speranza. Speranza che l’impegno, la fatica e le sofferenze, per seminare nel mondo la vita e la gioia, non saranno vani.

La via delle Beatitudini – XI

«Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.

Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.

Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi.» (Matteo 5, 10-12)

L’ottava beatitudine può essere intesa come il coronamento di ciò che viene detto da Gesù nel discorso della montagna.

C’è un segno ben preciso, stilistico, che conferma quest’idea. Anche qui, come per i poveri in spirito di cui parla la prima beatitudine, ai perseguitati a causa della giustizia viene promesso il regno dei cieli.

Il cerchio si chiude.

Le cose, tuttavia, non sono così semplici come si crede. Nel discorso della montagna, infatti, della giustizia si è già parlato. E dunque sembra che l’ottava beatitudine costituisca una ripetizione di quanto veniva detto a proposito di chi, della giustizia, ha fame e sete. Di più. Sembra che suggerisca, in maniera disillusa, che il voler avere giustizia, nel mondo in cui viviamo, sia causa di persecuzione. Anche se questo fatto, nelle parole di Gesù, non porta certo alla disperazione, bensì alla gioia.

In realtà la prospettiva in cui si guarda alla giustizia nella quarta e nell’ottava beatitudine è molto diversa.

Nel primo caso la giustizia è qualcosa a cui si aspira.

Nel secondo caso si patiscono le conseguenze di quest’aspirazione e del tentativo di realizzarla. Si tratta anzi, qui, di una beatitudine in cui la persona chiamata in causa non è considerata per quello che è, ma per quello che ha fatto o può fare.

Ma in che modo si può essere perseguitati a causa della giustizia? Che cosa vuol dire, qui, «giustizia»? Il riferimento non è, evidentemente, a coloro che sono vittime di una cattiva interpretazione della legge. Il discorso è più ampio. I veri giusti sono coloro che seguono Gesù. Sono coloro che non solo si conformano ai suoi insegnamenti, ma soprattutto che agiscono allo stesso modo in cui Gesù si è comportato. Fino a essere messo in croce proprio perché giusto.

La fede cristiana si realizza infatti proprio attraverso una relazione impegnativa e coinvolgente: la relazione personale con Gesù Cristo. E questa relazione è coinvolgente proprio in quanto spinge a seguirlo.

Le beatitudini dicono che cosa significa e come si compie questo legame con ciò che Gesù è e fa. E dicono che, in questo modo, l’uomo e la donna si realizzano sempre più pienamente, appunto come esseri umani.

Ecco perché – proprio nel riferimento a questo rapporto personale con Gesù che il cristiano è chiamato ad attuare, proprio nell’indicazione di questa sua possibilità di seguire fino in fondo ciò che viene detto nel discorso della montagna – trova qui piena conclusione la sequenza delle beatitudini.

Infatti solo ora diviene chiaro che cosa comporta l’assunzione dell’atteggiamento – innocente, bisognoso di consolazione, mite, volto alla ricerca della giustizia, misericordioso, puro, pacifico – che Gesù incarna. Comporta la fioritura della figura del giusto. Ma implica anche la possibilità che il giusto, proprio perché tale, venga perseguitato.

Com’è accaduto a Gesù stesso. Come sempre più spesso, in tante parti del mondo, accade oggi ai cristiani e non solo. Anche se i cristiani sanno, in ogni caso, che proprio dei giusti è il regno dei cieli.

Il Santo Padre ci spiega a proposito di questa ultima beatitudine:

“La povertà in spirito, il pianto, la mitezza, la sete di santità, la misericordia, la purificazione del cuore e le opere di pace possono condurre alla persecuzione a causa di Cristo, ma questa persecuzione alla fine è causa di gioia e di grande ricompensa nei cieli.

Il sentiero delle Beatitudini è un cammino pasquale che conduce da una vita secondo il mondo a quella secondo Dio, da un’esistenza guidata dalla carne – cioè dall’egoismo – a quella guidata dallo Spirito.

Il mondo, con i suoi idoli, i suoi compromessi e le sue priorità, non può approvare questo tipo di esistenza. Le “strutture di peccato”, spesso prodotte dalla mentalità umana, così estranee come sono allo Spirito di verità che il mondo non può ricevere (cfr Gv 14, 17), non possono che rifiutare la povertà o la mitezza o la purezza e dichiarare la vita secondo il Vangelo come un errore e un problema, quindi come qualcosa da emarginare. Così pensa il mondo: “Questi sono idealisti o fanatici…”. Così pensano loro.

Se il mondo vive in funzione del denaro, chiunque dimostri che la vita può compiersi nel dono e nella rinuncia diventa un fastidio per il sistema dell’avidità. Questa parola “fastidio” è chiave, perché la sola testimonianza cristiana, che fa tanto bene a tanta gente perché la segue, dà fastidio a coloro che hanno una mentalità mondana. La vivono come un rimprovero.

Quando appare la santità ed emerge la vita dei figli di Dio, in quella bellezza c’è qualcosa di scomodo che chiama ad una presa di posizione: o lasciarsi mettere in discussione e aprirsi al bene o rifiutare quella luce e indurire il cuore, anche fino all’opposizione e all’accanimento (cfr Sap 2, 14-15).

È curioso, attira l’attenzione vedere come, nelle persecuzioni dei martiri, cresce l’ostilità fino all’accanimento. Basta vedere le persecuzioni del secolo scorso, delle dittature europee: come si arriva all’accanimento contro i cristiani, contro la testimonianza cristiana e contro l’eroicità dei cristiani.

Ma questo mostra che il dramma della persecuzione è anche il luogo della liberazione dalla sudditanza al successo, alla vanagloria e ai compromessi del mondo. Di cosa si rallegra chi è rifiutato dal mondo per causa di Cristo? Si rallegra di aver trovato qualcosa che vale più del mondo intero. Infatti «quale vantaggio c’è che un uomo guadagni il mondo intero e perda la propria vita?» (Mc 8, 36). Quale vantaggio c’è lì?

È doloroso ricordare che, in questo momento, ci sono molti cristiani che patiscono persecuzioni in varie zone del mondo, e dobbiamo sperare e pregare che quanto prima la loro tribolazione sia fermata. Sono tanti: i martiri di oggi sono più dei martiri dei primi secoli. Esprimiamo a questi fratelli e sorelle la nostra vicinanza: siamo un unico corpo, e questi cristiani sono le membra sanguinanti del corpo di Cristo che è la Chiesa.

Ma dobbiamo stare attenti anche a non leggere questa beatitudine in chiave vittimistica, autocommiserativa. Infatti, non sempre il disprezzo degli uomini è sinonimo di persecuzione: proprio poco dopo Gesù dice che i cristiani sono il «sale della terra», e mette in guardia dal pericolo di «perdere il sapore», altrimenti il sale «a null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente» (Mt 5, 13). Dunque, c’è anche un disprezzo che è colpa nostra, quando perdiamo il sapore di Cristo e del Vangelo.

Bisogna essere fedeli al sentiero umile delle Beatitudini, perché è quello che porta ad essere di Cristo e non del mondo. Vale la pena di ricordare il percorso di San Paolo: quando pensava di essere un giusto era di fatto un persecutore, ma quando scoprì di essere un persecutore, divenne un uomo d’amore, che affrontava lietamente le sofferenze della persecuzione che subiva (cfr Col 1, 24).

L’esclusione e la persecuzione, se Dio ce ne accorda la grazia, ci fanno somigliare a Cristo crocifisso e, associandoci alla sua passione, sono la manifestazione della vita nuova. Questa vita è la stessa di Cristo, che per noi uomini e per la nostra salvezza fu «disprezzato e reietto dagli uomini» (cfr Is 53, 3; At 8, 30-35).

Accogliere il suo Spirito ci può portare ad avere tanto amore nel cuore da offrire la vita per il mondo senza fare compromessi con i suoi inganni e accettandone il rifiuto. I compromessi con il mondo sono il pericolo: il cristiano è sempre tentato di fare dei compromessi con il mondo, con lo spirito del mondo.

Questa – rifiutare i compromessi e andare per la strada di Gesù Cristo – è la vita del Regno dei cieli, la più grande gioia, la vera letizia. E poi, nelle persecuzioni c’è sempre la presenza di Gesù che ci accompagna, la presenza di Gesù che ci consola e la forza dello Spirito che ci aiuta ad andare avanti.

Non scoraggiamoci quando una vita coerente col Vangelo attira le persecuzioni della gente: c’è lo Spirito che ci sostiene, in questa strada.”