
Oggi affronteremo la seconda beatitudine:
«Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati» (Matteo 5, 4)
Nella vita possiamo piangere per molti motivi, anche di gioia. Ma solitamente le lacrime sono segno di sofferenza.
Le sofferenze occupano tanto spazio nella vita umana! Vedi ad esempio il difficile periodo che stiamo vivendo.
C’è chi piange perché è ammalato, chi perché non si sente accolto con amore, chi perché ha perso una persona amata, chi perché è stato tradito da un amico, o perché non trova più senso nella propria vita e lo ha cercato disperatamente in esperienze di morte e di disperazione, e ancora perché è calpestato nella sua dignità …
Ma c’è anche chi piange perché non ha il pane da dare ai propri figli, perché non riesce a comprare le medicine di cui ha urgente bisogno un familiare ammalato, perché gli hanno fatto morire in cuore le uniche speranze che gli restavano …
Dio ci promette però un mondo nuovo, dove Lui “tergerà ogni lacrima dagli occhi” degli uomini (cfr Ap 21, 4 e Is 25, 8).
Gesù stesso, facendo sua la profezia di Isaia, nella sinagoga di Nazareth all’inizio della sua attività pubblica, afferma che: “Lo Spirito del Signore è su di me perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato […] per consolare tutti gli afflitti […]. Oggi si compie questa scrittura …” (cfr. Is 61, 1-2; Lc 4, 18-19).
Nel pianto è dunque possibile conoscere un’esperienza unica e misteriosa: la consolazione. È possibile sentire un cuore e un corpo accostarsi alla nostra sofferenza e asciugare i nostri occhi. È possibile stringere un abbraccio che è un frammento di nulla in confronto all’abisso del dolore, eppure riscalda, rinnova, risana.
“Saranno consolati”: è la promessa di Gesù. I biblisti ci insegnano che siccome il verbo è al passivo, significa che sarà Dio stesso a farlo con un abbraccio di cui noi non afferriamo nemmeno una debole e lontana comprensione. Il mistero di quell’abbraccio non cancella il dolore che abita la storia degli uomini, ma apre uno squarcio di luce inedito e sorprendente nel buio straziante dell’afflizione.

Il pianto può essere amaro, doloroso, devastante. È l’espressione dell’impotenza di fronte al potere dilagante del male che ci strappa la felicità non vissuta.
Il pianto ci porta ad un dolore interiore che apre ad una rinnovata relazione con il Signore e con il prossimo.
Il Santo Padre a proposito di questa beatitudine ci insegna:
“Questo pianto, nelle Scritture, può avere due aspetti: il primo è per la morte o per la sofferenza di qualcuno. L’altro aspetto sono le lacrime per il peccato […], quando il cuore sanguina per il dolore di avere offeso Dio e il prossimo.
Il lutto, ad esempio, è una strada amara, ma può essere utile per aprire gli occhi sulla vita e sul valore sacro e insostituibile di ogni persona, e in quel momento ci si rende conto di quanto sia breve il tempo.
Vi è un secondo significato di questa paradossale beatitudine: piangere per il peccato.
Qui bisogna distinguere: c’è chi si adira perché ha sbagliato. Ma questo è orgoglio. Invece c’è chi piange per il male fatto, per il bene omesso, per il tradimento del rapporto con Dio. Questo è il pianto per non aver amato, che sgorga dall’avere a cuore la vita altrui. Qui si piange perché non si corrisponde al Signore che ci vuole tanto bene, e ci rattrista il pensiero del bene non fatto; questo è il senso del peccato. Costoro dicono: “Ho ferito colui che amo”, e questo li addolora fino alle lacrime. Dio sia benedetto se arrivano queste lacrime!
Questo è il tema dei propri errori da affrontare, difficile ma vitale. Pensiamo al pianto di san Pietro, che lo porterà a un amore nuovo e molto più vero: è un pianto che purifica, che rinnova. Pietro guardò Gesù e pianse: il suo cuore è stato rinnovato. A differenza di Giuda, che non accettò di aver sbagliato e, poveretto, si suicidò. Capire il peccato è un dono di Dio, è un’opera dello Spirito Santo. Noi, da soli, non possiamo capire il peccato. È una grazia che dobbiamo chiedere. Signore, che io capisca il male che ho fatto o che posso fare. Questo è un dono molto grande e dopo aver capito questo, viene il pianto del pentimento.
Uno dei primi monaci, Efrem il Siro dice che un viso lavato dalle lacrime è indicibilmente bello (cfr Discorso ascetico). La bellezza del pentimento, la bellezza del pianto, la bellezza della contrizione! Come sempre la vita cristiana ha nella misericordia la sua espressione migliore. Saggio e beato è colui che accoglie il dolore legato all’amore, perché riceverà la consolazione dello Spirito Santo che è la tenerezza di Dio che perdona e corregge. Dio sempre perdona: non dimentichiamoci di questo. Dio sempre perdona, anche i peccati più brutti, sempre. Il problema è in noi, che ci stanchiamo di chiedere perdono, ci chiudiamo in noi stessi e non chiediamo il perdono. Questo è il problema; ma Lui è lì per perdonare”.

Leggiamo ora il racconto tratto dal Vangelo di Luca 7, 11-15:
“In seguito Gesù andò in un villaggio chiamato Nain […]; quando fu vicino all’entrata di quel villaggio, Gesù incontrò un funerale: veniva portato alla sepoltura l’unico figlio di una vedova, e molti abitanti del villaggio erano con lei. Appena la vide, il Signore ne ebbe compassione e le disse: ‘Non piangere!’. Poi si avvicinò alla bara e la toccò: quelli che la portavano si fermarono. Allora disse: ‘Ragazzo, ti lo dico io: alzati!’. Il morto si alzò e cominciò a parlare. Gesù allora lo restituì a sua madre”.
In questo episodio troviamo la realizzazione della seconda beatitudine proclamata da Gesù. Egli infatti dice alla donna: “Non piangere!”, che non è una parola vuota ma, viceversa, carica di emotività ed efficacia. Egli dona felicità a una madre vedova che piange amaramente la morte del suo unico figlio, ciò di più caro aveva al mondo, condividendo anzitutto con lei il suo dolore e poi restituendole il figlio vivo!
Gesù soffre con chi soffre e piange con chi piange. Si commuove e ha compassione. Il suo rendersi partecipe del dolore di chi piange lo porta ad asciugare le lacrime di sofferenza. Le asciuga rimuovendo la causa che le faceva versare, la morte del figlio unico. Gesù dunque consola chi è nella tristezza.
Per la società attuale, dominata dall’edonismo, il paradosso della beatitudine che meditiamo oggi, risulta incomprensibile. La cultura secolarizzata, che promuove l’illusione che la scienza e la medicina possano sconfiggere definitivamente il dolore, non è in grado di rispondere alla domanda radicale di Giobbe e di Dostoevskij: perché gli innocenti continuano a soffrire ingiustamente, senza ragione?
Le lacrime di dolore non sono mai volute da Dio, il quale è buono e vuole solo il nostro bene. Contrariamente a quanto si sente spesso ripetere, la sofferenza viene da altrove, non viene da Dio. Non è vero quindi che ciò che ci fa piangere di dolore o di tristezza è “volontà di Dio”. Al contrario, se Egli, come in mille modi ci ha fatto sapere Gesù, vuole soltanto e sempre la nostra vita e la nostra felicità, dobbiamo dire che ciò che si oppone ad esse è anche contrario alla sua volontà. Non è per niente vero che, come dice spesso la gente, “siamo nati per soffrire”.
Dio, secondo quello che possiamo capire dalle parole di Gesù e soprattutto dal suo agire, non ci ha creato per soffrire, ma perché siamo felici della sua stessa felicità. Egli “non gode con la morte dell’uomo” (Ez 18, 32), ma è “amante della vita” (Sap 11, 26), per cui vuole rimuovere ogni lacrima dagli occhi umani, come vuole far scomparire anche le cause che le provocano: le malattie, le incomprensioni, la solitudine, le ingiustizie, la guerra …
Perciò possiamo affermare che quando la sofferenza fa scaturire lacrime dai nostri occhi, Dio sta con noi, per partecipare alla nostra stessa afflizione.
Oltre a soffrire con noi, Dio è anche con noi per aiutarci ad affrontare la sofferenza con dignità, come Dio Padre stette con Gesù appeso alla croce.
In quel terribile momento Egli visse una situazione umanamente assurda, ma Dio era con Lui per aiutarlo a vivere quella circostanza con un cuore di figlio, che ha piena fiducia nell’amore del Padre suo e con un cuore di fratello, che lo porta a perdonare perfino chi lo mette a morte. Perciò la sua morte è “piena di beatitudine”, come dice un’antica preghiera eucaristica.
Ma questa seconda beatitudine pronunciata da Gesù sta a dire anche un’altra cosa: che occorre fare il possibile per asciugare le lacrime che grondano dagli occhi umani, “piangendo con chi piange” (Rom 12, 15), essendo vicini a chi soffre e, nella misura delle proprie capacità, rimuovendo le cause della sua sofferenza.
Asciugare le lacrime oggi significa aiutare l’uomo o la donna che sono nella solitudine e nell’incomprensione, essere capaci di ascoltare con profondità chi si sente emarginato, accompagnare chi è vittima della malattia o della estrema povertà, come fanno i tanti eroi e testimoni che condividono la vita dei poveri e sofferenti nei posti più miserevoli della terra.
Ma significa anche darsi da fare per sradicare quelle ingiustizie che, nella vita sociale in tutto il mondo, creano milioni di esclusi e di emarginati.
