La via delle Beatitudini – X

Il cammino intrapreso oggi ci porta a meditare la settima beatitudine:

«Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Matteo 5, 9)

Il saluto più ripetuto nella Bibbia è «Shalòm», che noi traduciamo con «desidero la pace per te».

Ma nel nostro linguaggio corrente la parola «pace» impoverisce il senso che le dava la Scrittura e che è poi quello che le attribuiva certamente Gesù nella sua settima beatitudine del discorso della montagna.

«Shalòm» designava la pienezza di ogni bene, l’abbondanza, il benessere. Quando in ebraico si augura «Shalòm», si augura una vita bella, piena, prospera, ma anche secondo la verità e la giustizia.

Potremmo dire che «pace», sulla bocca di Gesù, è sinonimo di quel «regno di Dio» che Egli cercò così appassionatamente nella sua vita. È per questo che, nel vangelo di Giovanni, troviamo frasi come questa detta ai discepoli nel suo discorso di congedo: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi» (Gv 14, 27).

La sua è molto di più di quella «pseudo-pace» che alle volte si pretende far regnare tra di noi. Come ad esempio, nei tempi passati, la famosa «pace romana», ottenuta a furor di legioni, cioè imposta con la forza e la guerra. O come quella che regna in una famiglia dove si evita semplicemente di affrontare i problemi, perché «si vuole stare in pace», facendosi ognuno «i fatti suoi». Anche nei cimiteri c’è molta pace, ma è la pace della morte!

Gesù non vuole la pace della morte, ma della vita. Quella pace che Egli ha cercato con passione durante tutta la sua vita e che ha raggiunto nel momento della sua risurrezione. Una pace che è sinonimo appunto di pienezza di vita. La pace ha compimento nel Messia, che è il Principe della pace (cfr Is 9, 6; Mic 5, 4-5).

San Paolo scrive che la pace di Cristo è «fare di due, uno» (cfr Ef 2, 14-17), cioè annullare l’inimicizia e riconciliare. La strada per compiere questa opera di pace è il suo corpo. Egli infatti riconcilia tutte le cose e mette pace con il sangue della sua Croce, come dice altrove lo stesso apostolo (cfr Col 1, 20). In questo modo il Signore Gesù ci dona la sua pace. Quella vera, che il mondo non può darci!

Nel vangelo di Giovanni c’è una narrazione piena di suggestione. Racconta di qualcosa avvenuto la sera della Pasqua. Gesù, appena risorto, si presenta vivo in mezzo ai suoi discepoli impauriti e li saluta con le classiche parole imparate dalla tradizione del suo popolo: «Pace a voi!». E dopo aver mostrato loro le mani e il costato, ripete di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi» (Gv 20, 19-21). Come a dire: «Ecco la vostra missione nel mondo, prolungamento della mia: andate a operare la pace. Per questo vi do il mio Spirito». La pace è il primo dono del Risorto, è dono di Pasqua.

Non solo fruitori, ma anche e principalmente operatori di pace, della sua pace: è questa la vocazione di chi dice di seguire Gesù. E operare la pace significa lavorare per sradicare dal mondo, piccolo o grande che sia, tutto ciò che genera morte, e per assecondare e far crescere tutto ciò che genera vita. Una vocazione stupenda a cui si connette una grande promessa di felicità.

La pace che Dio ci dona non è una sorta di tranquillità interiore, quiete, armonia, equilibrio interno. Né la pace di Gesù è la semplice assenza della guerra. È molto di più. È la giusta attuazione dei rapporti con Dio, con se stessi, con gli altri, con la natura, con le cose…

Ma, proprio per questo, è anche assenza di guerra. E di guerre ce ne sono tante nel mondo attuale. Guerre aperte, portate avanti per anni e anni utilizzando sofisticati armamenti inventati dall’intelligenza umana, e magari forniti segretamente da chi, d’altra parte, denuncia gli stessi scontri bellici e perfino negozia pubblicamente per stroncarli. E guerre velate, fatte mediante la creazione e il mantenimento di strutture economiche, sociali e politiche che, silenziosamente e senza troppo rumore, falciano la vita di migliaia e migliaia di persone indifese. Alle volte si fa più guerra con una presa di posizione economica (un contratto salariale, un aumento delle tasse…), che priva del necessario i più deboli della società, che con i più raffinati missili.

Ma poi ci sono altre guerre, quelle piccole. Quelle che si fanno all’interno di una famiglia nella quale i rapporti si sono rarefatti o perfino stroncati, quelle che si generano nella stessa Chiesa tra i diversi movimenti o gruppi che si dichiarano seguaci di Gesù… Non spargono materialmente il sangue, ma lo versano in tanti altri modi. Sono fonti di morte per solitudine, per emarginazione, per esclusione.

Ma per fortuna c’è anche oggi nel mondo un’accresciuta sensibilità verso la pace. Si è perfino istituito il premio Nobel per la pace, attribuito a uomini e donne che si sono battuti per crearla o per ristabilirla. I movimenti pacifisti si moltiplicano un po’ dappertutto. Hanno contribuito a creare una nuova sensibilità secondo la quale non esistono «guerre giuste», come si pensava un tempo, anche in ambito ecclesiale. Essi si meritano, siano o no cristiani, la beatitudine proclamata da Gesù. Magari senza saperlo, stanno portando avanti, almeno per quell’aspetto così importante della pace, il grande progetto di Gesù.

C’è davvero da domandarsi se ci si può dire discepoli di colui che per la pace piena e gioiosa tra gli uomini diede anche la sua vita, se si nutrono sentimenti di guerra, se si assumono atteggiamenti aggressivi, se si fanno discorsi bellicosi, se si agisce con violenza verso gli altri, specialmente verso i più deboli.

Un cristiano dovrebbe essere per natura un non-violento. E anche se in passato c’è stato chi, perfino nel nome di Gesù Cristo e portando il suo stendardo, fece la guerra, è il momento di dire «mai più!».

In conclusione ascoltiamo le parole di Papa Francesco a proposito di questa beatitudine:

«Sono chiamati figli di Dio coloro che hanno appreso l’arte della pace e la esercitano, sanno che non c’è riconciliazione senza dono della propria vita, e che la pace va cercata sempre e comunque. Sempre e comunque: non dimenticare questo! Va cercata così.

Questa non è un’opera autonoma frutto delle proprie capacità, è manifestazione della grazia ricevuta da Cristo, che è nostra pace, che ci ha resi figli di Dio.

La vera «Shalòm» e il vero equilibrio interiore sgorgano dalla pace di Cristo, che viene dalla sua Croce e genera un’umanità nuova, incarnata in una infinita schiera di Santi e Sante, inventivi, creativi, che hanno escogitato vie sempre nuove per amare. I Santi e le Sante che costruiscono la pace.

Questa vita da figli di Dio, che per il sangue di Cristo cercano e ritrovano i propri fratelli, è la vera felicità. Beati coloro che vanno per questa via».

La via delle Beatitudini – IX

Oggi meditiamo la sesta beatitudine:

«Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Matteo 5, 8)

«Dio non l’ha mai visto nessuno» (Gv 1, 18; 1 Gv 4, 12).

Questa affermazione della Bibbia vuole sottolineare una verità grande: Dio è mistero e, perciò, inafferrabile, ineffabile. Egli è sempre al di là… Ci sovrasta in tale modo che mai nessuno può dire: «Ecco, l’ho preso, è nelle mie mani».

I nostri occhi sono troppo piccoli per riuscire a vedere la sua luce, le nostri mani sono troppo deboli per afferrarlo.

Eppure, come dice un bellissimo salmo, «di Te ha sete l’anima mia, a Te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz’acqua» (Sal 63, 2).

L’uomo ha sete di una relazione personale con Dio.

Nel libro di Giobbe leggiamo: «Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto» (Gb 42, 5). Inizialmente conosciamo Dio per sentito dire, ma con la nostra esperienza andiamo avanti e alla fine lo conosciamo direttamente, se siamo fedeli … È questo il cammino della vita nel nostro rapporto con Dio, un rapporto sincero.

Ci insegna Papa Francesco a riguardo:

“Come arrivare a questa intimità, a conoscere Dio con gli occhi? Si può pensare ai discepoli di Emmaus, per esempio, che hanno il Signore Gesù accanto a sé, «ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo» (Lc 24, 16). Il Signore schiuderà il loro sguardo al termine di un cammino che culmina con la frazione del pane ed era iniziato con un rimprovero: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti!» (Lc 24, 25). Quello è il rimprovero dell’inizio. Ecco l’origine della loro cecità: il loro cuore stolto e lento. E quando il cuore è stolto e lento, non si vedono le cose. Si vedono le cose come annuvolate”.

Anche se non lo pensa, ogni uomo è assetato di Dio. Desidera ardentemente, dal più profondo del suo essere, «vedere il suo volto». Un altro salmo recita: «Il mio cuore ripete il tuo invito: “Cercate il mio volto!”. Il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto» (Sal 27, 8-9).

Sant’Agostino recitava nella preghiera: «Ci hai fatto per Te, Signore, e il nostro cuore è irrequieto fino a che non si riposa in Te!». E proprio la visione del volto di Dio che può rendere intensamente felice il cuore umano. L’umanità è andata sempre cercandolo, molte volte «a tentoni», secondo l’espressiva frase di San Paolo nel suo discorso all’areopago di Atene (At 17, 27).

Gesù lo sapeva bene. Ma Egli, come dice Giovanni, era «l’Unigenito che è nel seno del Padre», e come tale, perché conosceva il Padre, ci ha rivelato il suo volto (Gv 1, 18). E ci ha detto che fin d’ora noi possiamo anticipare la felicità, piena e definitiva, che avremo un giorno: noi possiamo già ora vedere Dio! A una sola condizione, quella di avere un cuore puro.

Nella nostra cultura, il cuore è – simbolicamente – la sede dei sentimenti. Nella cultura biblica esso è invece, se così possiamo esprimerci, il luogo della propria e irripetibile identità, lo spazio interiore dove una persona è sé stessa. Esso designa la profondità più intima di ogni essere umano, il «posto» dove si giocano le sue decisioni più personali. Perciò la Bibbia parla così spesso del cuore, perché racconta la storia dei rapporti delle persone tra di loro e con Dio.

Dai vangeli si coglie che Gesù sapeva, per esperienza, che ci sono dei cuori pieni di impurità. Li incontrò più di una volta durante la sua attività per il regno di Dio. Da essi, come Egli dichiarò nel vangelo di Marco, quando i suoi avversari accusavano i suoi discepoli di sedersi alla mensa senza essersi lavate le mani, «escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l’uomo» (Mc 7, 21-23).

Sono questi i cuori che fecero resistenza e perfino opposizione al grande progetto di fraternità per la vita che Gesù andava proponendo con passione. Proprio perché erano impuri erano «di pietra», come già denunciava nell’antichità il profeta Ezechiele (Ez 36, 26). Essi provocarono l’indignazione e allo stesso tempo la tristezza di Gesù (cfr. Mc 3, 1-6). Cuori come questi non possono vedere Dio, perché sono abitati dalle tenebre, mentre «Dio è Luce» (1 Gv 1, 5).

Il nostro caro Pontefice ci spiega ancora:

“Qui sta la saggezza di questa beatitudine: per poter contemplare Dio è necessario entrare dentro di noi e far spazio a Dio, perché, come dice Sant’Agostino, “Dio è più intimo a me di me stesso” (“interior intimo meo”: Confessioni, III,6,11). Per vedere Dio non serve cambiare occhiali o punto di osservazione, o cambiare autori teologici che insegnino il cammino: bisogna liberare il cuore dai suoi inganni! Questa strada è l’unica.

Questa è una maturazione decisiva: quando ci rendiamo conto che il nostro peggior nemico, spesso, è nascosto nel nostro cuore. La battaglia più nobile è quella contro gli inganni interiori che generano i nostri peccati. Perché i peccati cambiano la visione interiore, cambiano la valutazione delle cose, fanno vedere cose che non sono vere, o almeno che non sono così vere”.

Lo stesso Ezechiele aveva fatto una grande profezia per i tempi futuri:

«Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati;

io vi purificherò da tutte le vostre sozzure

e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo,

metterò dentro di voi uno spirito nuovo;

toglierò da voi il cuore di pietra

e vi darò un cuore di carne» (Ez 36, 25-26).

È l’adempimento di questa profezia l’oggetto della sesta beatitudine proclamata da Gesù nel suo discorso della montagna. Quegli uomini e donne che, come Lui, si lasciano «trapiantare» da Dio un cuore nuovo, liberato da tutti gli egoismi che lo rendono impuro, sono beati.

È lo Spirito Santo che è capace di trasformare il nostro cuore duro, insensibile, di pietra, in un cuore nuovo, che pulsa, vive e ama.

«L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5, 5) e ci trasforma in uomini rinnovati con un cuore di carne.

È la felicità dell’amore, di quello vero e fecondo che fa nascere la vita attorno a sé sia pure pagando di persona. E dove si tocca l’amore, si vede Dio! (1 Gv 4, 12).

Concludiamo questa riflessione facendoci aiutare ancora dalle parole del Santo Padre:

“In questa visione beatifica c’è una dimensione futura, escatologica, come in tutte le Beatitudini: è la gioia del Regno dei Cieli verso cui andiamo. Ma c’è anche l’altra dimensione: vedere Dio vuol dire intendere i disegni della Provvidenza in quel che ci accade, riconoscere la sua presenza nei Sacramenti, la sua presenza nei fratelli, soprattutto poveri e sofferenti, e riconoscerlo dove Lui si manifesta (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 2519).

Questa beatitudine è un po’ il frutto delle precedenti: se abbiamo ascoltato la sete del bene che abita in noi e siamo consapevoli di vivere di misericordia, inizia un cammino di liberazione che dura tutta la vita e conduce fino al Cielo.

È un lavoro serio, un lavoro che fa lo Spirito Santo se noi gli diamo spazio perché lo faccia, se siamo aperti all’azione dello Spirito Santo.

Per questo possiamo dire che è un’opera di Dio in noi – nelle prove e nelle purificazioni della vita – e questa opera di Dio e dello Spirito Santo porta a una gioia grande, a una pace vera. Non abbiamo paura, apriamo le porte del nostro cuore allo Spirito Santo perché ci purifichi e ci porti avanti in questo cammino verso la gioia piena”.

La via delle Beatitudini – VIII

Oggi continuiamo a meditare la luminosa via della felicità che il Signore ci ha consegnato nelle Beatitudini, giungendo alla quinta tappa:

«Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia» (Matteo 5, 7)

In questa beatitudine c’è una particolarità: è l’unica in cui la causa e il frutto della felicità coincidono, la misericordia.

C’è un brano nei vangeli che illustra meravigliosamente il significato di questa beatitudine: è la parabola del Buon Samaritano. Eccola, nella sua stupenda ricchezza e incisività:

«Un uomo scendeva da Gerusalemme verso Gerico, quando incontrò i briganti. Gli portarono via tutto, lo presero a bastonate e poi se ne andarono lasciandolo mezzo morto. Per caso passò un sacerdote; vide l’uomo ferito, passò dall’altra parte della strada e proseguì. Anche un levita del tempio passò per quella strada; anche lui lo vide, lo scansò e proseguì. Invece un uomo della Samaria, che era in viaggio, gli passò accanto, lo vide e ne ebbe compassione. Gli andò vicino, versò olio e vino sulle sue ferite e gliele fasciò. Poi lo caricò sul suo asino e lo portò a una locanda e fece tutto il possibile per aiutarlo. Il giorno dopo tirò fuori due monete d’argento, le diede al padrone dell’albergo e gli disse: “Abbi cura di lui e anche se spenderai di più pagherò io quando ritorno”. A questo punto Gesù domandò: “Secondo te, chi di questi tre si è comportato come prossimo per quell’uomo che aveva incontrato i briganti?”. Il maestro della legge rispose: “Quello che usò di misericordia verso di lui”. Gesù allora gli disse: “Va’ e comportati allo stesso modo”» (Lc 10, 30-37).

Nel racconto si dice che tutti e tre i passanti, tanto il sacerdote quanto il levita e il Samaritano, videro l’uomo mezzo morto ai margini della strada, ma mentre i due primi lo scansarono e proseguirono per il loro cammino, il terzo «ne ebbe compassione».

Il termine usato dall’evangelista Luca in questo punto è molto espressivo. Il Samaritano, visto l’uomo mezzo morto, si commosse fino alle viscere. Gli altri due invece, pur vedendolo, non ebbero la stessa reazione, o almeno la repressero, poiché essa non arrivò a produrre gli stessi effetti che invece produsse nel Samaritano.

Questi effetti sono espressione di una sollecitudine davvero estrema:

«… gli andò vicino, versò olio e vino sulle sue ferite e gliele fasciò, poi lo caricò sul suo asino e lo portò a una locanda e fece tutto il possibile per aiutarlo»; non solo, ma ancora, «il giorno dopo tirò fuori due monete d’argento e le diede al padrone», affinché se ne prendesse cura fino al suo ritorno, disposto a rimborsare anche di tasca sua quanto venisse da lui speso a questo fine. Difficilmente si poteva dipingere a tinte più vive l’interessamento di un uomo per un altro. E, per di più, per un altro sconosciuto e … nemico!

È noto l’odio che separava samaritani e giudei (cfr. Gv 4, 9): questi ultimi consideravano quelli pagani. Per un giudeo era impossibile pensare a un buon samaritano.

Tutto questo darsi da fare del Samaritano ha una chiara sorgente: la sua reazione «viscerale» davanti alla «miserevole» condizione dell’uomo incontrato ai margini della strada.

Egli si sentì toccato nel vivo delle sue viscere da ciò che «vide». Non rimase insensibile ma, viceversa, si sentì intensamente e personalmente interpellato. E, lasciandosi trasportare dalla sua commozione, si mise ad agire per venire incontro alla sua situazione. «Si fece prossimo di quell’uomo che aveva incontrato i briganti», come dice Gesù.

In una parola, «gli usò di misericordia».

Le due componenti, intensa emotività da una parte e impegnata operatività dall’altra, caratterizzano il suo comportamento. Egli è un uomo «buono» (la narrazione è passata alla storia come la parabola del «Buon» Samaritano!). Egli è l’immagine viva della misericordia, nel senso etimologico della parola (miseri-cor-dia: avere cuore per il misero).

Uomini come questo sono di sicuro quelli che si meritano la beatitudine di Gesù: «Beati voi, misericordiosi, perché troverete misericordia».

Sulla sua bocca questa beatitudine suona a complimento e ad augurio. Complimento, perché chi la merita viene riconosciuto come uno che partecipa nello stesso grande progetto di Gesù, il regno di Dio; augurio, perché gli si promette un futuro pieno di gioia. Per lui è un vero vangelo, una vera buona notizia.

A proposito, ci insegna Papa Francesco:

“Da dove nasce la nostra misericordia? Gesù ci ha detto: «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6, 36). Quanto più si accoglie l’amore del Padre, tanto più si ama (cfr CCC, 2842). La misericordia non è una dimensione fra le altre, ma è il centro della vita cristiana: non c’è cristianesimo senza misericordia. Se tutto il nostro cristianesimo non ci porta alla misericordia, abbiamo sbagliato strada, perché la misericordia è l’unica vera meta di ogni cammino spirituale. Essa è uno dei frutti più belli della carità (cfr CCC, 1829).

La misericordia di Dio è la nostra liberazione e la nostra felicità. Noi viviamo di misericordia e non ci possiamo permettere di stare senza misericordia: è l’aria da respirare. Siamo troppo poveri per porre le condizioni, abbiamo bisogno di perdonare, perché abbiamo bisogno di essere perdonati”.

Il Buon Samaritano – Vincent Van Gogh

Ma, in realtà, il primo a meritarsi questa beatitudine è lo stesso Gesù.

Infatti, ci sono nei vangeli diversi testi in cui il suo atteggiamento viene descritto con lo stesso termine con cui Luca caratterizzò la reazione del Samaritano misericordioso della parabola. Uno di essi, forse il più emblematico, è quello di Mc 1, 40-41, in cui Egli si ritrova davanti un lebbroso che gli chiede con grande fiducia e speranza di aiutarlo: «Se vuoi, tu puoi guarirmi!». Marco dice che Gesù, alla presenza di questo morto-in-vita, «si sentì toccato nelle viscere». E, continua raccontando, mosso da quella viva compassione, «lo toccò con la mano e gli disse: “Sì, lo voglio: guarisci!” Subito la lebbra sparì e quell’uomo si trovò guarito». La sua reazione è così forte che lo porta perfino a superare la esigente legge della purità legale, che proibiva di toccare un lebbroso sotto pena di contrarre l’impurità legale.

Potremmo dire che Gesù non solo agì sempre misericordiosamente, ma pure che «morì di misericordia». Egli portò il suo atteggiamento di attenzione e di tenerezza particolare verso i più piccoli e deboli, i più «moribondi», fino alle ultime conseguenze. La croce è la suprema espressione di questo suo modo di reagire.

E, dietro a Gesù, ci sono stati nella storia sempre uomini e donne che si sono meritati la beatitudine della misericordia. Tanti santi e sante hanno brillato nella Chiesa per il loro eroico impegno nelle «opere di misericordia». Quelle cosiddette spirituali, e quelle corporali.

Ce ne sono anche oggi. Quanti e quante, magari nel nascondimento e senza fare chiasso, si danno da fare generosamente per accudire i malati, sfamare gli affamati, consolare i tristi, visitare i carcerati, accogliere i senza tetto … Ricordiamo un esempio luminoso: Santa Madre Teresa di Calcutta e tutti quelli che la seguono nell’accudire gli ultimi della società, i «barboni», gli ammalati senza assistenza, gli extracomunitari, …

Una cosa possiamo aggiungere: ci vogliono ancora oggi, indubbiamente, delle «Madre Teresa» che spendano la loro vita e brucino con generosità le loro energie nella misericordia assistenziale, ma ci vogliono anche degli uomini e delle donne che siano capaci di esercitare una autentica misericordia socio-politica, mirata a organizzare e far funzionare la convivenza collettiva «a partire dagli ultimi», con l’attenzione posta in maniera privilegiata sui più deboli in ogni senso e ad ogni livello, senza dimenticare quello in cui si giocano le sorti planetarie dell’umanità.

Uomini e donne, in definitiva, che gestiscano veramente il potere decisionale all’insegna della beatitudine proclamata da Gesù: «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia».

Il Santo Padre afferma ancora a riguardo della beatitudine odierna:

“La misericordia è il cuore stesso di Dio! Gesù dice: «Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati» (Lc 6, 37). Sempre la stessa reciprocità. E la Lettera di Giacomo afferma che «la misericordia ha sempre la meglio sul giudizio» (2, 13).

Ma è soprattutto nel Padre Nostro che noi preghiamo: «Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6, 12); e questa domanda è l’unica ripresa alla fine: «Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe» (Mt 6, 14-15; cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 2838).

Ci sono due cose che non si possono separare: il perdono dato e il perdono ricevuto. Ma tante persone sono in difficoltà, non riescono a perdonare. Tante volte il male ricevuto è così grande che riuscire a perdonare sembra come scalare una montagna altissima: uno sforzo enorme; e uno pensa: non si può, questo non si può. Questo fatto della reciprocità della misericordia indica che abbiamo bisogno di rovesciare la prospettiva. Da soli non possiamo, ci vuole la grazia di Dio, dobbiamo chiederla. Infatti, se la quinta beatitudine promette di trovare misericordia e nel Padre Nostro chiediamo la remissione dei debiti, vuol dire che noi siamo essenzialmente dei debitori e abbiamo necessità di trovare misericordia!

Tutti siamo debitori. Tutti. Verso Dio, che è tanto generoso, e verso i fratelli. Ogni persona sa di non essere il padre o la madre che dovrebbe essere, lo sposo o la sposa, il fratello o la sorella che dovrebbe essere. Tutti siamo “in deficit”, nella vita. E abbiamo bisogno di misericordia. Sappiamo che anche noi abbiamo fatto il male, manca sempre qualcosa al bene che avremmo dovuto fare.

Ma proprio questa nostra povertà diventa la forza per perdonare! Siamo debitori e se, come abbiamo ascoltato all’inizio, saremo misurati con la misura con cui misuriamo gli altri (cfr Lc 6, 38), allora ci conviene allargare la misura e rimettere i debiti, perdonare. Ognuno deve ricordare di avere bisogno di perdonare, di avere bisogno del perdono, di avere bisogno della pazienza; questo è il segreto della misericordia: perdonando si è perdonati. Perciò Dio ci precede e ci perdona Lui per primo (cfr Rm 5, 8). Ricevendo il suo perdono, diventiamo capaci a nostra volta di perdonare. Così la propria miseria e la propria carenza di giustizia diventano occasione per aprirsi al regno dei cieli, a una misura più grande, la misura di Dio, che è misericordia”.

La via delle Beatitudini – VII

Ci soffermiamo oggi sulla quarta beatitudine, che dice:

«Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati» (Matteo 5, 6)

Per noi la giustizia consiste nel fatto che ad ognuno venga dato ciò che gli corrisponde. In un processo, a chi è colpevole il castigo, a chi è innocente il riconoscimento della sua innocenza; nella società, ad ognuno ciò che è suo secondo i suoi diritti o di proprietà o di lavoro.

Ci muoviamo all’interno del binomio diritto-dovere. E ne siamo sempre più sensibili.

Gesù si muove su un’altra lunghezza d’onda. Egli parla della giustizia anzitutto come una qualità di Dio. E non nel senso che Egli sia un giudice che presiede il tribunale davanti al quale devono comparire tutti gli uomini, ma nel senso che interviene per salvare dall’ingiustizia chi è incapace di salvarsi da sé. Il giudizio finale sulla nostra vita ci sarà, ma nella sua infinita misericordia Dio continua a venirci a salvare. E vuole la nostra salvezza!

Egli fa giustizia inizialmente salvando il popolo ebreo schiavo in Egitto, liberandolo poi costantemente dai nemici che lo opprimono e, al suo interno, proteggendo «l’orfano, la vedova e lo straniero», i quali, nel linguaggio dell’Antico Testamento, sono il prototipo del debole, dell’indifeso e dell’afflitto.

Ci spiega infatti Papa Francesco che: “Le Sacre Scritture parlano del dolore dei poveri e degli oppressi che Dio conosce e condivide. Per aver ascoltato il grido di oppressione elevato dai figli d’Israele – come racconta il libro dell’Esodo (cfr 3, 7-10) – Dio è sceso a liberare il suo popolo. Ma la fame e la sete della giustizia di cui ci parla il Signore è ancora più profonda del legittimo bisogno di giustizia umana che ogni uomo porta nel suo cuore”.

Anche quando la Bibbia parla di un suo inviato, il futuro re-messia, profezia su Gesù, che realizzerà pienamente i suoi voleri nel mondo, lo descrive come uno che farà giustizia in questo preciso modo.

Nel Salmo 72 viene così descritta la sua figura, all’interno della preghiera che si fa per lui:

«Dio, da’ al re il tuo giudizio, al figlio del re la tua giustizia;

regga con giustizia il tuo popolo e i tuoi poveri con rettitudine.

Le montagne portino pace al popolo e le colline giustizia.

Ai miseri del suo popolo renderà giustizia,

salverà i figli dei poveri e abbatterà l’oppressore…

Egli libererà il povero che grida e il misero che non trova aiuto,

avrà pietà del debole e del povero e salverà la vita dei suoi miseri.

Li riscatterà dalla violenza e dal sopruso,

sarà prezioso ai suoi occhi il loro sangue».

Un altro passo biblico dal libro della Sapienza afferma inoltre, spiegandoci il termine giustizia:

“Conoscerti, infatti, è giustizia perfetta, conoscere la tua potenza è radice di immortalità” (Sap 15, 3a).

Ciò significa che quando si entra in intimità con Dio e si riconosce chi è Dio nella sua onnipotenza, allora si è introdotti nell’ordine supremo della giustizia e nell’orizzonte dell’immortalità promessa a quanti amano la giustizia.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica sostiene che: «La grazia dello Spirito Santo ci conferisce la giustizia di Dio. Unendoci mediante la fede e il Battesimo alla passione e alla risurrezione di Cristo, lo Spirito ci rende partecipi della sua vita».

Questo significa che il dono dello Spirito Santo ha il potere di redimerci dai nostri peccati e di comunicarci la giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo e mediante il Battesimo.

Perciò per mezzo della potenza dello Spirito Santo, noi prendiamo parte alla passione di Cristo morendo al peccato, e alla sua risurrezione nascendo a una vita nuova.

Questa è la giustizia di Dio: salvarci dal peccato e dalla perdizione, per vivere con Lui nel suo amore per l’eternità. Non è questa una beatitudine?

La fame e la sete sono bisogni primari, fisiologici, come il respirare e il dormire. Senza di esse non si sopravvive. Non si tratta quindi di soddisfare una voglia qualsiasi, bensì è una necessità vitale e quotidiana, come il cibo.

Il Santo Padre a riguardo ci insegna:

“Ma cosa significa avere fame e sete di giustizia? Non stiamo certo parlando di coloro che vogliono vendetta, anzi, nella beatitudine precedente abbiamo parlato di mitezza. Certamente le ingiustizie feriscono l’umanità; la società umana ha urgenza di equità, di verità e di giustizia sociale; ricordiamo che il male subito dalle donne e dagli uomini del mondo giunge fino al cuore di Dio Padre. Quale padre non soffrirebbe per il dolore dei suoi figli?”

Basta dare uno sguardo ai vangeli, per avvertire che Gesù sentiva intensamente fame e sete di questa giustizia.

Tutta la sua attività è ispirata alla sua realizzazione.

È facile cogliere in essi il suo ardente desiderio di «rendere giustizia ai miseri del suo popolo», di «salvare la vita dei miseri».

Nel vangelo di Luca troviamo questa frase posta sulla sua bocca: «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!» (Lc 12, 49).

Possiamo pensare che questo fuoco sia stato quell’intensissimo desiderio che lo spingeva a voler instaurare la vera giustizia di Dio nel mondo. Un desiderio che lo portava a privilegiare nella sua attenzione e nella sua sollecitudine i più deboli, i più emarginati, gli esclusi, gli ultimi della società. E a riempirsi di gioia quando riusciva a farlo, come si vede in Lc 10, 21-22, dove egli esulta nello Spirito e rende grazie al Padre, appunto perché questi «piccoli» sono raggiunti dalla sua azione. È che davvero «ai suoi occhi era prezioso il loro sangue», cioè la loro vita, la loro salute, la loro dignità. In una parola, la loro felicità.

L’amore appassionato per questa giustizia gli rese però la vita difficile. Quelli che non la amavano, anzi, la rifuggivano soprattutto perché volevano difendere ad ogni costo le proprie posizioni ingiuste, anche servendosi a questo scopo della religione, videro in Lui un pericolo e una minaccia. Lo perseguitarono perciò in mille modi, e infine l’appesero ad una croce. Non sapevano che così gli aprivano la via alla pienezza della vita.

Oggi nel mondo c’è indubbiamente una accresciuta sensibilità per la giustizia. Soprattutto per quella sociale, che è diventata quasi una bandiera per la rivendicazione dei diritti dei più deboli. È che si è andato prendendo coscienza delle tremende ingiustizie esistenti. Ingiustizie che hanno dei risvolti non solo individuali, ma anche e pesantemente sociali, fino a raggiungere livelli planetari.

Come hanno evidenziato crudamente i documenti papali da qualche decennio in qua, la maggior parte dell’umanità, quella che è stata chiamata Terzo Mondo, è in situazione di estrema e umiliante povertà. Una povertà che le viene inflitta attraverso meccanismi socio-economici che non permettono a milioni di uomini e donne di avere neanche il minimo necessario per vivere con dignità.

A questo si aggiungono le ingiuste emarginazioni sociali, politiche e culturali della donna, l’esclusione e perfino la persecuzione di coloro che non praticano la propria religione, l’isolamento di coloro che sono culturalmente diversi…

Ma, tutto sommato, si può dire che oggi più che in altri tempi c’è maggior fame e sete di quella giustizia sognata da Gesù. Dappertutto spuntano movimenti di rivendicazione dei diritti degli ultimi: dei poveri, dei terzomondiali, delle donne, dei neri, …

Sono movimenti che vogliono ottenere giustizia per essi, e si impegnano in quella direzione tanto a livello assistenziale (quanto volontariato è cresciuto in questi anni!) quanto a livello socio-politico.

Alcuni lo hanno fatto e lo fanno pagando duramente di persona. Sono stati perseguitati, esiliati, torturati in mille modi inumani, e perfino li hanno eliminati, come fecero in altri tempi con Gesù. Il caso dell’arcivescovo Oscar Romero, assassinato nel Salvador per la sua indomita difesa dei più poveri, è certamente uno fra tanti altri.

Siano essi cristiani o no, credenti in Dio o no, non si può negare che meritano la beatitudine di Gesù: hanno vera fame e sete di giustizia come Lui. Alla fine, al momento della verità, si sentiranno dire, con immensa gioia da parte loro:

«Venite, benedetti dal Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e siete venuti a visitarmi, carcerato e siete venuti a trovarmi» (Mt 25, 34-36).

Monsignor Oscar Romero

Concludiamo la riflessione, rileggendo le parole del Santo Pontefice, a riguardo di questa beatitudine.

“Nelle Scritture troviamo espressa una sete più profonda di quella fisica, che è un desiderio posto alla radice del nostro essere.

Un Salmo dice: «O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz’acqua» (Sal 63, 2).

I Padri della Chiesa parlano di questa inquietudine che abita nel cuore dell’uomo. Sant’Agostino dice: «Ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore non trova pace finché non riposa in te». C’è una sete interiore, una fame interiore, una inquietudine …

In ogni cuore, perfino nella persona più corrotta e lontana dal bene, è nascosto un anelito verso la luce, anche se si trova sotto macerie di inganni e di errori, ma c’è sempre la sete della verità e del bene, che è la sete di Dio.

È lo Spirito Santo che suscita questa sete: è Lui l’acqua viva che ha plasmato la nostra polvere, è Lui il soffio creatore che le ha dato vita.

Per questo la Chiesa è mandata ad annunciare a tutti la Parola di Dio, impregnata di Spirito Santo. Perché il Vangelo di Gesù Cristo è la più grande giustizia che si possa offrire al cuore dell’umanità, che ne ha un bisogno vitale, anche se non se ne rende conto.

Ad esempio, quando un uomo e una donna si sposano hanno l’intenzione di fare qualcosa di grande e bello, e se conservano viva questa sete troveranno sempre la strada per andare avanti, in mezzo ai problemi, con l’aiuto della Grazia.

Anche i giovani hanno questa fame, e non la devono perdere! Bisogna proteggere e alimentare nel cuore dei bambini quel desiderio di amore, di tenerezza, di accoglienza che esprimono nei loro slanci sinceri e luminosi.

Ogni persona è chiamata a riscoprire cosa conta veramente, di cosa ha veramente bisogno, cosa fa vivere bene e, nello stesso tempo, cosa sia secondario, e di cosa si possa tranquillamente fare a meno.

Gesù annuncia in questa beatitudine – fame e sete di giustizia – che c’è una sete che non sarà delusa; una sete che, se assecondata, sarà saziata e andrà sempre a buon fine, perché corrisponde al cuore stesso di Dio, al suo Santo Spirito che è amore, e anche al seme che lo Spirito Santo ha seminato nei nostri cuori.

Che il Signore ci dia questa grazia: di avere questa sete di giustizia che è proprio la voglia di trovarlo, di vedere Dio e di fare il bene agli altri.”

Giudizio universale di Michelangelo

La via delle Beatitudini – VI

Siamo giunti alla terza tappa del nostro viaggio intrapreso nelle Beatitudini:

«Beati i miti perché avranno in eredità la terra» (Matteo 5, 5)

Il nostro mondo è pieno di violenze. Quale ultimo esempio basti pensare alla morte di George Floyd, il 46enne afroamericano tenuto immobilizzato da un poliziotto per nove minuti con il ginocchio sul suo collo a Minneapolis negli Stati Uniti d’America.

In realtà sembra che la prepotenza e l’aggressività ci siano state un po’ sempre, a giudicare da quanto racconta la Bibbia sin dalle sue prime pagine.

L’episodio, altamente simbolico, di Caino e Abele ne è una conferma. Caino versò il sangue di suo fratello. Terribile violenza, figlia dell’invidia, a cui seguì poi l’arrogante dichiarazione di una pretesa non-responsabilità nei confronti della vittima: «Sono forse io il guardiano del mio fratello?» (Gn 4, 9).

Nel cuore di ogni essere umano si annida la violenza, e che sulla soglia del suo animo è sempre in agguato la tentazione di sopraffare l’altro, di fargli violenza, o per invidia o per orgoglio o per vendetta. Gli basta un nulla per cadervi.

La nostra realtà di oggi lo conferma. I focolai di guerra esistenti sul pianeta sono decine e decine: popoli interi che soffrono violenza o la infliggono, utilizzando le armi più sofisticate fabbricate dagli interessi meschini di terzi.

Come diceva Santa Caterina da Siena, ciò che Dio diede all’uomo per la vita, egli lo utilizza per la morte…

Ma oltre a queste violenze collettive ce ne sono tante, tantissime altre inflitte o subite singolarmente verso gli esseri umani e verso il creato: bambini che soffrono la violenza degli adulti fino al punto di essere abbandonati, appena nati, tra i rifiuti della strada; donne che subiscono il violento e degradante sfruttamento degli uomini per soddisfare i loro istinti di piacere; famiglie intere, che soffrono la paura e l’insicurezza che crea loro la mafia; anziani che vengono trascurati e messi ai margini della società… Tanta, tanta violenza visibile o invisibile che semina dolore e morte nel mondo.

Davanti a tutto ciò Gesù lancia la sua grande sfida: «Beati i miti, perché erediteranno la terra».

Mite è chi non dà retta al suo istinto di sopraffazione e di vendetta, ma si sforza di rispettare tutti e di vincere il male con il bene. Questo soprattutto: non risponde al male inflittogli con il male, non si vendica, ma è capace di stare al di sopra del male amando sempre e appassionatamente il bene. Anche di quelli che gli fanno del male.

Con frasi alle volte paradossali Gesù ha illustrato il comportamento mite, diametralmente opposto a quello violento. Una delle più incisive è quella del discorso della montagna: «Avete udito che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra» (Mt 5, 38-39). Proponeva così un palese superamento della legge della violenza, già in parte attenuata dalla normativa di Mosé mediante la “legge del taglione” (cfr. Es 21, 23-25). Come sempre, quest’indicazione non va presa alla lettera, ma nel suo spirito. Gesù stesso, infatti, a chi durante il suo processo davanti al sinedrio lo percosse sulla guancia, rispose: «Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?» (Gv 18, 23). Una risposta piena di dignità, ma anche di mitezza, che non si arrende al male, ma lo supera con il bene.

Per essere miti, dobbiamo allora imitare Gesù. La mitezza è il modo concreto con cui Lui vive: «Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime» (Mt 11, 29).

Gesù entra in Gerusalemme mostrandosi mite, seduto su un’asina (cfr. Mt 21, 5). Non si manifesta come un guerriero vittorioso, né come un condottiero che conquista il mondo con la forza, ma come il servo obbediente a Dio e misericordioso verso gli uomini.

Ma la mansuetudine di Gesù non è assenza di forza. Lo vediamo ad esempio quando Egli scaccia i mercanti dal Tempio: lo fa in modo risoluto.

Come in tutte le altre cose anche in questa Gesù è stato coerente fino in fondo con quanto insegnava. Così, nell’imminenza della sua passione, a quel discepolo che per difenderlo sfoderò la spada e tagliò l’orecchio al servo del sommo sacerdote, Egli disse con determinazione: «Rimetti la spada nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada» (Mt 26, 52).

San Pietro a sua volta ricorda l’atteggiamento di Gesù nella Passione: «oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta, ma rimetteva la sua causa a colui che giudica con giustizia» (1 Pt 2, 23). La mitezza di Gesù si vede fortemente nella sua Passione.

Gesù si affida con mitezza totalmente al Padre nella certezza che alla fine avrebbe trionfato la giustizia.

L’apice di questo suo atteggiamento di mitezza lo rivela la preghiera da Lui detta sulla croce in favore di coloro che lo torturavano: «Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno» (Lc 23, 34). Egli sapeva bene di essere vittima di una violenta ingiustizia. Eppure, anziché implorare da Dio un intervento punitivo, che effettuasse giustizia, implora il perdono per i suoi assassini. È così che Egli è diventato Signore, «ereditando la terra» promessa da Dio, ossia la pienezza della vita.

La parola “mite” letteralmente vuol dire dolce, mansueto, gentile, privo di violenza. La mitezza si manifesta nei momenti ostili, è la reazione in una situazione di scontro.

Dall’ebraico “anawim”, che richiama la povertà spirituale e dunque la prima beatitudine. Infatti entrambe sono vicine e complementari. La mitezza evangelica, che nasce appunto dai poveri in spirito, è la totale fiducia e abbandono in Dio, che esclude la collera e la violenza in atti.

Il contrario della mitezza è infatti l’ira.

Il Santo Padre afferma che: «Un momento di collera può distruggere tante cose; si perde il controllo e non si valuta ciò che veramente è importante, e si può rovinare il rapporto con un fratello, talvolta senza rimedio. Per l’ira, tanti fratelli non si parlano più, si allontanano l’uno dall’altro. È il contrario della mitezza. La mitezza raduna, l’ira separa».

Il termine “mite” nella Sacra Scrittura indica anche colui che non ha proprietà terriere. Colpisce dunque che la terza beatitudine affermi proprio che i miti «avranno in eredità la terra».

Ci dice ancora papa Francesco riguardo a questa beatitudine: «Il possesso della terra è l’ambito tipico del conflitto: si combatte spesso per un territorio, per ottenere l’egemonia su una certa zona. Nelle guerre il più forte prevale e conquista altre terre.

Ma guardiamo bene il verbo usato per indicare il possesso dei miti: essi non conquistano la terra; non dice «beati i miti perché conquisteranno la terra». La “ereditano”. Beati i miti perché “erediteranno” la terra. Nelle Scritture il verbo “ereditare” ha un senso ancor più grande. Il Popolo di Dio chiama “eredità” proprio la terra di Israele che è la Terra della Promessa.

Quella terra è una promessa e un dono per il popolo di Dio, e diventa segno di qualcosa di molto più grande di un semplice territorio. C’è una “terra” – permettete il gioco di parole – che è il Cielo, cioè la terra verso cui noi camminiamo: i nuovi cieli e la nuova terra verso cui noi andiamo (cfr Is 65,17; 66,22; 2 Pt 3,13; Ap 21,1)».

Ereditare la terra, dunque significa non tanto avere in possesso la terra geografica-geopolitica, ma piuttosto la terra promessa: «il Cielo, cioè la terra verso cui noi camminiamo: i nuovi cieli e la nuova terra verso cui noi andiamo», ci suggerisce il Pontefice.

Come leggiamo in Apocalisse 21, 1: «Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era più».

Il premio destinato ai miti è quindi quello della vita eterna, che però possiamo già ora vivere attraverso la vita nuova nello Spirito Santo.

Lo Spirito Santo ci conforma a Cristo e ci fa essere discepoli autentici di Gesù. Ci rende donne e uomini nuovi, che vivono nel pieno abbandono a Lui.

La terra che ci viene promessa è anche un’altra e ce lo spiega il Santo Padre: «La “terra” da conquistare con la mitezza è la salvezza di quel fratello di cui parla lo stesso Vangelo di Matteo: «Se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello» (Mt 18, 15). Non c’è terra più bella del cuore altrui, non c’è territorio più bello da guadagnare della pace ritrovata con un fratello. E quella è la terra da ereditare con la mitezza!»

Mahatma Gandhi

La storia recente ci ha messo davanti agli occhi stupendi esempi di uomini e donne che hanno vissuto intensamente questa beatitudine.

Come non ricordare, per esempio, il paladino della non-violenza nel secolo scorso, Gandhi? Egli fu sempre un uomo mite e predicò costantemente, con la condotta e, con le parole e gli scritti, la mitezza: la libertà non si ottiene scatenando la violenza e la vendetta, ma per vie di resistenza attiva. Fu la sua mitezza ad «ereditare la terra» della sua grande patria, l’India, come terra indipendente e libera. La sua mitezza non fu affatto facile e passiva arrendevolezza, ma operosa non-violenza. Affermava Gandhi: «La non violenza non è mai una rinuncia ad ogni lotta concreta contro l’ingiustizia. Al contrario è una lotta più attiva e più concreta».

Con lui ricordiamo anche altri grandi uomini della storia mondiale, difensori della non-violenza, quali il reverendo Martin Luther King e Nelson Mandela, che è riuscito a sconfiggere l’apartheid.

Nel 1980 in Italia fece molto riflettere, nel mezzo della violenza di quei giorni che falciò la vita di Vittorio Bachelet, giurista e politico italiano, assassinato dalle Brigate Rosse, il giovane figlio che, durante i funerali, dichiarò pubblicamente di perdonare coloro che lo avevano privato dall’affetto e dalla presenza di suo padre, rendendolo violentemente orfano. «Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri».

Causò anche molto scalpore quella coppia di genitori statunitensi che, avendo subito lo strappo violento del loro figlioletto di sette anni, Nicholas Green, ammazzato da una vile pallottola mentre giravano l’Italia, si “vendicarono” donando gli organi del figlio morto a ben sette bambini e adulti ammalati bisognosi di trapianti. Nella loro mitezza trasformarono l’ingiusta e assurda morte del loro figlio in una fonte di vita per altri.

Uomini e donne come questi sono quelli che, credendo alla parola di Gesù, anziché aprire una spirale di violenza, preferiscono superare il male con il bene. Una beatitudine profonda e immensa deve aver riempito i loro cuori!

La via delle Beatitudini – V

Oggi affronteremo la seconda beatitudine:

«Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati» (Matteo 5, 4)

Nella vita possiamo piangere per molti motivi, anche di gioia. Ma solitamente le lacrime sono segno di sofferenza.

Le sofferenze occupano tanto spazio nella vita umana! Vedi ad esempio il difficile periodo che stiamo vivendo.

C’è chi piange perché è ammalato, chi perché non si sente accolto con amore, chi perché ha perso una persona amata, chi perché è stato tradito da un amico, o perché non trova più senso nella propria vita e lo ha cercato disperatamente in esperienze di morte e di disperazione, e ancora perché è calpestato nella sua dignità …

Ma c’è anche chi piange perché non ha il pane da dare ai propri figli, perché non riesce a comprare le medicine di cui ha urgente bisogno un familiare ammalato, perché gli hanno fatto morire in cuore le uniche speranze che gli restavano …

Dio ci promette però un mondo nuovo, dove Lui “tergerà ogni lacrima dagli occhi” degli uomini (cfr Ap 21, 4 e Is 25, 8).

Gesù stesso, facendo sua la profezia di Isaia, nella sinagoga di Nazareth all’inizio della sua attività pubblica, afferma che: “Lo Spirito del Signore è su di me perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato […] per consolare tutti gli afflitti […]. Oggi si compie questa scrittura …” (cfr. Is 61, 1-2; Lc 4, 18-19).

Nel pianto è dunque possibile conoscere un’esperienza unica e misteriosa: la consolazione. È possibile sentire un cuore e un corpo accostarsi alla nostra sofferenza e asciugare i nostri occhi. È possibile stringere un abbraccio che è un frammento di nulla in confronto all’abisso del dolore, eppure riscalda, rinnova, risana.

“Saranno consolati”: è la promessa di Gesù. I biblisti ci insegnano che siccome il verbo è al passivo, significa che sarà Dio stesso a farlo con un abbraccio di cui noi non afferriamo nemmeno una debole e lontana comprensione. Il mistero di quell’abbraccio non cancella il dolore che abita la storia degli uomini, ma apre uno squarcio di luce inedito e sorprendente nel buio straziante dell’afflizione.

Il pianto può essere amaro, doloroso, devastante. È l’espressione dell’impotenza di fronte al potere dilagante del male che ci strappa la felicità non vissuta.

Il pianto ci porta ad un dolore interiore che apre ad una rinnovata relazione con il Signore e con il prossimo.

Il Santo Padre a proposito di questa beatitudine ci insegna:

“Questo pianto, nelle Scritture, può avere due aspetti: il primo è per la morte o per la sofferenza di qualcuno. L’altro aspetto sono le lacrime per il peccato […], quando il cuore sanguina per il dolore di avere offeso Dio e il prossimo.

Il lutto, ad esempio, è una strada amara, ma può essere utile per aprire gli occhi sulla vita e sul valore sacro e insostituibile di ogni persona, e in quel momento ci si rende conto di quanto sia breve il tempo.

Vi è un secondo significato di questa paradossale beatitudine: piangere per il peccato.

Qui bisogna distinguere: c’è chi si adira perché ha sbagliato. Ma questo è orgoglio. Invece c’è chi piange per il male fatto, per il bene omesso, per il tradimento del rapporto con Dio. Questo è il pianto per non aver amato, che sgorga dall’avere a cuore la vita altrui. Qui si piange perché non si corrisponde al Signore che ci vuole tanto bene, e ci rattrista il pensiero del bene non fatto; questo è il senso del peccato. Costoro dicono: “Ho ferito colui che amo”, e questo li addolora fino alle lacrime. Dio sia benedetto se arrivano queste lacrime!

Questo è il tema dei propri errori da affrontare, difficile ma vitale. Pensiamo al pianto di san Pietro, che lo porterà a un amore nuovo e molto più vero: è un pianto che purifica, che rinnova. Pietro guardò Gesù e pianse: il suo cuore è stato rinnovato. A differenza di Giuda, che non accettò di aver sbagliato e, poveretto, si suicidò. Capire il peccato è un dono di Dio, è un’opera dello Spirito Santo. Noi, da soli, non possiamo capire il peccato. È una grazia che dobbiamo chiedere. Signore, che io capisca il male che ho fatto o che posso fare. Questo è un dono molto grande e dopo aver capito questo, viene il pianto del pentimento.

Uno dei primi monaci, Efrem il Siro dice che un viso lavato dalle lacrime è indicibilmente bello (cfr Discorso ascetico). La bellezza del pentimento, la bellezza del pianto, la bellezza della contrizione! Come sempre la vita cristiana ha nella misericordia la sua espressione migliore. Saggio e beato è colui che accoglie il dolore legato all’amore, perché riceverà la consolazione dello Spirito Santo che è la tenerezza di Dio che perdona e corregge. Dio sempre perdona: non dimentichiamoci di questo. Dio sempre perdona, anche i peccati più brutti, sempre. Il problema è in noi, che ci stanchiamo di chiedere perdono, ci chiudiamo in noi stessi e non chiediamo il perdono. Questo è il problema; ma Lui è lì per perdonare”.

(Da: Udienza Generale del 12 febbraio 2020 – Catechesi sulle Beatitudini: 3. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati (Mt 5,4))

Leggiamo ora il racconto tratto dal Vangelo di Luca 7, 11-15:

“In seguito Gesù andò in un villaggio chiamato Nain […]; quando fu vicino all’entrata di quel villaggio, Gesù incontrò un funerale: veniva portato alla sepoltura l’unico figlio di una vedova, e molti abitanti del villaggio erano con lei. Appena la vide, il Signore ne ebbe compassione e le disse: ‘Non piangere!’. Poi si avvicinò alla bara e la toccò: quelli che la portavano si fermarono. Allora disse: ‘Ragazzo, ti lo dico io: alzati!’. Il morto si alzò e cominciò a parlare. Gesù allora lo restituì a sua madre”.

In questo episodio troviamo la realizzazione della seconda beatitudine proclamata da Gesù. Egli infatti dice alla donna: “Non piangere!”, che non è una parola vuota ma, viceversa, carica di emotività ed efficacia. Egli dona felicità a una madre vedova che piange amaramente la morte del suo unico figlio, ciò di più caro aveva al mondo, condividendo anzitutto con lei il suo dolore e poi restituendole il figlio vivo!

Gesù soffre con chi soffre e piange con chi piange. Si commuove e ha compassione. Il suo rendersi partecipe del dolore di chi piange lo porta ad asciugare le lacrime di sofferenza. Le asciuga rimuovendo la causa che le faceva versare, la morte del figlio unico. Gesù dunque consola chi è nella tristezza.

Per la società attuale, dominata dall’edonismo, il paradosso della beatitudine che meditiamo oggi, risulta incomprensibile. La cultura secolarizzata, che promuove l’illusione che la scienza e la medicina possano sconfiggere definitivamente il dolore, non è in grado di rispondere alla domanda radicale di Giobbe e di Dostoevskij: perché gli innocenti continuano a soffrire ingiustamente, senza ragione?

Le lacrime di dolore non sono mai volute da Dio, il quale è buono e vuole solo il nostro bene. Contrariamente a quanto si sente spesso ripetere, la sofferenza viene da altrove, non viene da Dio. Non è vero quindi che ciò che ci fa piangere di dolore o di tristezza è “volontà di Dio”. Al contrario, se Egli, come in mille modi ci ha fatto sapere Gesù, vuole soltanto e sempre la nostra vita e la nostra felicità, dobbiamo dire che ciò che si oppone ad esse è anche contrario alla sua volontà. Non è per niente vero che, come dice spesso la gente, “siamo nati per soffrire”.

Dio, secondo quello che possiamo capire dalle parole di Gesù e soprattutto dal suo agire, non ci ha creato per soffrire, ma perché siamo felici della sua stessa felicità. Egli “non gode con la morte dell’uomo” (Ez 18, 32), ma è “amante della vita” (Sap 11, 26), per cui vuole rimuovere ogni lacrima dagli occhi umani, come vuole far scomparire anche le cause che le provocano: le malattie, le incomprensioni, la solitudine, le ingiustizie, la guerra …

Perciò possiamo affermare che quando la sofferenza fa scaturire lacrime dai nostri occhi, Dio sta con noi, per partecipare alla nostra stessa afflizione.

Oltre a soffrire con noi, Dio è anche con noi per aiutarci ad affrontare la sofferenza con dignità, come Dio Padre stette con Gesù appeso alla croce.

In quel terribile momento Egli visse una situazione umanamente assurda, ma Dio era con Lui per aiutarlo a vivere quella circostanza con un cuore di figlio, che ha piena fiducia nell’amore del Padre suo e con un cuore di fratello, che lo porta a perdonare perfino chi lo mette a morte. Perciò la sua morte è “piena di beatitudine”, come dice un’antica preghiera eucaristica.

Ma questa seconda beatitudine pronunciata da Gesù sta a dire anche un’altra cosa: che occorre fare il possibile per asciugare le lacrime che grondano dagli occhi umani, “piangendo con chi piange” (Rom 12, 15), essendo vicini a chi soffre e, nella misura delle proprie capacità, rimuovendo le cause della sua sofferenza.

Asciugare le lacrime oggi significa aiutare l’uomo o la donna che sono nella solitudine e nell’incomprensione, essere capaci di ascoltare con profondità chi si sente emarginato, accompagnare chi è vittima della malattia o della estrema povertà, come fanno i tanti eroi e testimoni che condividono la vita dei poveri e sofferenti nei posti più miserevoli della terra.

Ma significa anche darsi da fare per sradicare quelle ingiustizie che, nella vita sociale in tutto il mondo, creano milioni di esclusi e di emarginati.

Pentecoste 2020


Pentecoste – Particolare dell’Abbazia della Dormizione di Maria sul monte Sion a Gerusalemme

Oggi festeggiamo la Pentecoste, una festa cristiana che spesso viene messa in secondo piano e non tutti ne conoscono il significato pieno.

La Pentecoste è la realizzazione del mistero pasquale.

Lo Spirito Santo è infatti il dono del Cristo risorto, anzi il frutto della sua obbedienza fino alla morte.

Il Giovedì Santo, durante l’Ultima Cena, Gesù afferma infatti: “Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore, perché rimanga con voi per sempre” (Giovanni 14, 16)

Durante la sua Passione dunque, Gesù ci promette lo Spirito Santo, che nella sua morte in Croce scaturisce dal suo costato inondando l’umanità intera.

Quando Gesù appare risorto agli Apostoli la sera del giorno di Pasqua “alitò su di loro e disse: <<Ricevete lo Spirito Santo>>”.

È Cristo dunque che con la sua morte e la sua risurrezione ci ha meritato il dono dello Spirito. La Pentecoste è il frutto della Pasqua.

Lo Spirito Santo rende attuale in noi tutto ciò che Cristo ha compiuto una volta per sempre.

Cristo muore e risorge per “radunare i figli dispersi” (cfr. Giovanni 11, 52).

Nella storia, nel tempo è lo Spirito che rende contemporanea e attuale quest’opera.

A Pentecoste (cfr. Atti degli Apostoli 2) nasce la Chiesa, la comunità di amore.

Essa ha coscienza che non è nata da un progetto umano, né da volontà d’uomo, ma da Dio.

Con un intervento prodigioso, Dio ha effuso il suo Spirito sugli apostoli e sui discepoli radunati in preghiera nel Cenacolo con Maria, la madre di Gesù.

“Venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo, e riempì tutta la casa dove si trovavano.
Apparvero loro lingue come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro; ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere d’esprimersi”
(Atti degli Apostoli 2, 2-4)

La forza dello Spirito dona agli apostoli il coraggio di annunciare pubblicamente la risurrezione di Gesù e apre il cuore di coloro che li ascoltano alla fede e alla conversione.

È nata così, nel giorno di Pentecoste, la prima comunità cristiana, segno e modello per le comunità cristiane di tutti i tempi; risposta divina all’esigenza profonda di comunione che nasce dal cuore umano; luce di speranza per tutti gli uomini e le donne.

Ai piedi del Sinai, dopo il passaggio del Mar Rosso, l’antica Pasqua, Dio fa agli ebrei il dono della sua Legge, consegnando i dieci comandamenti e trasforma così una massa di schiavi in un popolo libero. Nasce così l’antico popolo di Dio, nella festa della Pentecoste ebraica.

A Gerusalemme, cinquanta giorni dopo la risurrezione di Gesù, la nuova Pasqua, Dio fa il dono dello Spirito Santo al gruppo dei credenti radunati nel Cenacolo e li trasforma interiormente. Nasce il nuovo popolo di Dio, la Chiesa, nella Pentecoste cristiana.

Nella Chiesa, lo Spirito suscita la diversità dei carismi e li rende “servizi” per l’edificazione e la crescita dell’unico Corpo di Cristo.

La presenza dello Spirito Santo che opera, in modo implicito nell’Antico Testamento, e in modo esplicito nel Nuovo, va riconosciuta in ogni momento del piano della salvezza.

Egli è lo Spirito creatore che edifica il Corpo di Cristo; è il dono messianico per eccellenza che fa entrare l’uomo in un nuovo e definitivo rapporto con Dio e lo conforma a Cristo; conserva e alimenta la comunione di salvezza tra gli uomini.

Dono ottenuto e inviato a noi da Gesù Cristo, ne continua e completa la missione, animando e guidando la Chiesa e il mondo nel cammino verso l’ultimo compimento.

È lo Spirito che spinge la Chiesa a svilupparsi, a rinnovarsi, a capire i tempi, a evangelizzare il mondo; è lui che ne conserva la struttura organica e ne vivifica le istituzioni; è lui che viene comunicato nei sacramenti, per mezzo dei quali santifica il popolo di Dio.

Lo Spirito Santo, effuso nella Pentecoste, è principio di unità e di interiorità. Egli distribuisce alla Chiesa doni e carismi, vi suscita vocazioni e opere che l’autorità non estingue ma discerne, giudica e coordina.

Lo Spirito Santo crea l’uomo nuovo. 

Conosciamo che dimoriamo in Dio e Dio in noi perché ci ha fatto il dono del suo Spirito. E la prova che siamo figli è questa: “Dio mandò lo Spirito del Figlio suo nei nostri cuori, il quale grida: Abbà, Padre” (cfr. Gal 4, 6).

È per questo dono che “non siamo più schiavi, ma figli, e se figli, anche eredi, coeredi di Dio, coeredi di Cristo” (cfr. Gal 4, 7). E diciamo allora: “dove c’è lo Spirito, là c’è la libertà” (cfr. 2 Cor 3, 17).

La Rivelazione ci mostra che Dio si inserisce sempre più intimamente nella sua creazione e che dona sempre più profondamente se stesso per rendere partecipe l’uomo alla sua vita, per realizzare con lui la più intima comunione.

È un’opera unica finalizzata, fin dall’inizio, a questa comunione. Essa inizia a partire dal Padre, che crea per amore, è realizzata dal Figlio, inviato dal Padre, per mezzo del mistero pasquale, attuata e portata a compimento nel tempo dello Spirito inviato dal Padre e dal Figlio.

Noi crediamo per fede che è lo Spirito Santo che ci ha resi “uomini nuovi”, conformandoci interiormente a Cristo, trasformandoci in uomini e donne non con un cuore di pietra, bensì di carne, che sanno amare. Figli del Padre e fratelli e sorelle di tutti gli uomini in Cristo: figli nel Figlio.

Lo Spirito Santo, che è Spirito di verità, di amore e di unione, è sorgente dell’amore autentico nel mondo: è la forza che spinge l’uomo a superare i limiti dell’egoismo, ad aprirsi. È presente in ogni tentativo per la liberazione dell’uomo, per la sua piena umanizzazione.

Concludendo, vorrei allora riferirmi al discorso del Santo Padre, durante l’incontro di Charis, il Servizio Internazionale per il Rinnovamento Carismatico Cattolico, alla Veglia di Pentecoste del 30 maggio 2020. Papa Francesco afferma infatti riguardo alla pandemia di coronavirus che stiamo vivendo:

Tutta questa sofferenza non sarà servita a nulla se non costruiremo tutti insieme una società più giusta, più equa, più cristiana, non di nome, ma di fatto, una realtà che ci porti a una condotta cristiana.  Se non lavoreremo per porre fine alla pandemia della povertà nel mondo, alla pandemia della povertà nel Paese di ognuno di noi, nella città dove vive ognuno di noi, questo tempo sarà stato invano.

Dalle grandi prove dell’umanità, e tra queste la pandemia, si esce migliori o peggiori. Non si esce uguali. Io vi chiedo: Come volete uscirne voi? Migliori o peggiori? Ed è per questo che oggi ci apriamo allo Spirito Santo affinché sia Lui a cambiare il nostro cuore e ad aiutarci a uscirne migliori”.

Riceviamo dunque in questa Pentecoste la forza dello Spirito Santo per uscire migliori di prima da questo momento di dolore e di prova rappresentato dalla pandemia.

BUONA PENTECOSTE!

La via delle Beatitudini – IV

Oggi stiamo vivendo un momento di grande difficoltà. Da una parte l’emergenza del coronavirus ha portato ad una crisi sanitaria ed economica, che è sotto gli occhi di tutti. Ma questo disagio aggrava ulteriormente lo smarrimento che la società odierna sta passato. Non parliamo solo di crisi economica, ma ancora peggio: abbiamo perso la nostra identità e non sappiamo più chi siamo. E, dunque, è anche un problema sapere cosa vogliamo e cosa possiamo essere.

C’è una crisi morale, in cui molti valori che una volta erano fondamentali, hanno perso di importanza e viceversa motivi effimeri sono divenuti essenziali.

La via d’uscita dalla crisi è sempre più lontana. Oggi più che mai abbiamo bisogno di indicazioni riguardo a noi stessi. Dobbiamo capire come realizzarci in giusta maniera.

Il Discorso della Montagna è uno dei luoghi del Vangelo in cui tutto ciò viene proclamato. Si parla di chi è beato. Beato è chi si realizza pienamente come essere umano. E Gesù proclama appunto questo. Lo annuncia in forma paradossale. Perché la mentalità comune considera beato proprio chi fa il contrario di ciò che lui dice.

Approfondiamo oggi la prima delle otto Beatitudini, narrate dal Vangelo di Matteo.

«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Matteo 5, 3).

Rispetto alla mentalità di questo mondo, risulta paradossale che la povertà sia oggetto di gioia.

Chiunque vorrebbe combattere la povertà, giustamente, ma in questo passaggio della Bibbia, non parliamo tanto di povertà di tipo economico, ma piuttosto dei “poveri del Signore” della tradizione biblica, gli “anawim”, quelle anime che si abbandonano fiduciosamente nel Signore, proprio perché sono mendicanti di Dio.

Nell’umiltà riconoscono l’infinita grandezza di Dio e la propria piccolezza e non temono, ma affidano a Dio tutto se stessi e sanno di avere da lui la vita e tutto il bene.

Per cui l’atteggiamento è di un’anima umile, che confida solo nel Signore Dio (cfr. Sof 3,12).

I poveri in spirito sono i veri umili, coloro che, combattendo le difficoltà di tutti i giorni, hanno preso coscienza dei propri limiti. Questi hanno scoperto la loro povertà di esseri umani. Sanno che gli avvenimenti della vita sono legati solo in parte alla propria volontà.

I poveri in spirito sono quelli che capiscono che il loro io non è il centro del mondo e che il mondo non dipende da loro. Lo possono fare aprendosi agli altri. Lo possono fare aprendosi a Dio. E trovando in questa relazione la prospettiva e la forza, per vivere nel modo giusto quanto li può capitare.

Le persone al lato opposto sono coloro che hanno ogni pretesa di dominare e prevalere sull’altro, che hanno ogni egoistico possesso materiale o spirituale.

I poveri in spirito sono coloro che si riconoscono per quello che sono: un nulla davanti a Dio. L’umiltà è quindi riconoscere la nostra vera natura, la nostra povertà e la nostra piccolezza di fronte alla ricchezza e alla grandezza di Dio. Per questo il Regno dei Cieli appartiene a queste persone, perché confessano l’onnipotenza di Dio, lo accettano come Re della loro vita. Vivono già in questo regno.

Per Gesù proprio questi poveri sono i primi destinatari del Vangelo, della Buona Notizia del Regno di Dio che egli annuncia (cfr. Mt 11,5-6; Lc 4,18): venuto per narrare a ogni essere umano il volto di Dio (cfr. Gv 1,18), Gesù ha vissuto quale “mite e umile di cuore” (Mt 11,29) e ha testimoniato il Regno dei Cieli vivendo in prima persona un’esistenza colma di senso. Egli, infatti, aveva una ragione per la quale valeva la pena spendere la vita, fino alla morte: la libera scelta di amare tutti gli uomini suoi fratelli, persino i nemici.

Abbandono in Dio e difesa del debole sono i luoghi in cui “Dio regna” già ora, non in un futuro di là da venire.

Come detto la povertà che si racconta qui, non è un mancare di tutto, non è miseria o indigenza, ma è una rinuncia a possedere per sé: ciò che si ha e si è, va sempre condiviso con gli altri; ciò che si ha e si è, non va considerato come un privilegio, come un titolo di successo o di potere, ma occorre condividerlo, senza trattenerlo per sé…

Non lo si ripeterà mai abbastanza: il vero nome della povertà vissuta da Gesù Cristo, e dunque della povertà cristiana, è condivisione. Per questo il discepolo abbandona casa e campi per seguire Gesù, abbandona anche la sicurezza della famiglia per stare con lui (cfr. Mc 10,29 e par.); egli condivide con i poveri ciò che possiede, perché sa che il giudizio incombe e che nel giudizio Dio si mostra come vendicatore dei poveri, come colui che rende loro giustizia.

E la croce come esito di una vita vissuta nella giustizia rivela la povertà vera di Gesù: nessuno a difenderlo, nessuno a sostenerlo, come un uomo che non conta nulla per il potere e per la gente, un uomo solo e povero come il Servo sofferente di Isaia, come il giusto povero che nei Salmi può unicamente gridare a Dio, affidandogli tutta la propria vita!

Gesù è stato “il povero del Signore”, dalla nascita fino alla morte: è stato libero come può esserlo solo chi è povero nel cuore; è stato capace di accogliere le umiliazioni, sottomettendosi per amore a tutti coloro che incontrava, senza rispondere alla violenza con la violenza, ma continuando sempre a vivere nell’autentica, profonda povertà.

Gesù ha saputo ascoltare il grido del povero, davanti al quale si è invece tentati di distogliere lo sguardo. Così facendo, ha tracciato per noi un cammino preciso: dopo di lui, il povero che manca del necessario per vivere con dignità è “sacramento” di Cristo, perché con lui Gesù ha voluto identificarsi nel discorso sul giudizio finale (cfr. Mt 25,31-46), ma è nello stesso tempo “segno” dell’ingiustizia che vige nel mondo, del venir meno degli umani al comandamento dell’amore per il prossimo.

Solo attraverso l’assunzione della semplicità e la disponibilità a rendere ogni giorno povero il nostro cuore, “sulle tracce di Cristo” (cfr. 1Pt 2,21), giungeremo alla comunione fraterna: è così che nostro “è il regno di Dio” perché Dio regna nelle nostre vite; è così che si può sperimentare già qui e ora, immersi nel duro mestiere di vivere, la beatitudine dei poveri in spirito, concessa a chi si esercita a fare della propria esistenza un capolavoro di amore.

La via delle Beatitudini – III

Gesù, uomo delle beatitudini

Beati i poveri

Gesù nasce povero,

muore nudo e solo su una croce.

Sceglie una vita povera,

non cerca ricchezze e onori.

Non sta con i potenti del mondo.

Condivide la sorte degli ultimi,

di quelli che non contano nulla

e attendono tutto da Dio.

A loro annuncia

la buona novella della salvezza.

Gesù è l’uomo povero e libero

che si abbandona

nelle mani del Padre

e lo prega con fiducia.

Gesù vive sempre

in comunione con Dio:

Gesù è il regno di Dio.

Beati gli afflitti

Gesù piange con chi piange,

si fa carico del dolore degli altri

e risponde al loro grido di aiuto.

Egli dona la vista ai ciechi,

l’udito ai sordi,

fa camminare gli storpi,

guarisce i malati di lebbra…

Al suo passaggio

il pianto si trasforma in gioia,

l’angoscia in speranza,

la morte in vita.

Gesù è la consolazione

di coloro che soffrono.

Beati i miti

Gesù è mite e umile di cuore.

Non tratta nessuno con violenza,

ma è buono verso tutti.

Non vuole dominare sugli altri.

ma sceglie l’ultimo posto

e si mette a loro servizio

fino a donare per essi la vita.

Gesù è un Messia d’amore,

è il re della Pace:

non usa la forza

per portare la salvezza

e per instaurare il suo regno

di giustizia e di pace.

Beato chi ha fame e sete di giustizia

Gesù è “giusto” con Dio e con gli uomini,

desidera ardentemente

di fare la volontà di Dio.

È disposto ad affrontare

anche la morte,

pur di compiere la missione

che il Padre gli ha affidato.

Gesù è il Figlio obbediente

che si sazia

con il pane della fedeltà,

che beve sino in fondo

il calice dell’obbedienza.

Beati i misericordiosi

Gesù è misericordioso

e grande nel perdono.

Egli non è venuto per condannare,

ma per portare a tutti la salvezza.

È venuto a cercare

ciò che era perduto.

Gesù accoglie i peccatori,

siede a mensa con loro,

li invita alla conversione.

Nel suo amore senza limiti

perdona coloro

che lo hanno condannato

a morire sulla Croce

e chiede per loro

il perdono di Dio.

Beati i puri di cuore

Gesù è puro di cuore,

limpido e sincero.

È l’uomo senza maschere,

che non ha secondi fini

e non inganna mai nessuno.

Dice con amore la verità a tutti

e denuncia ogni forma

di ipocrisia e di doppiezza.

Davanti al Sommo Sacerdote,

dichiara apertamente,

di essere il Messia tanto atteso,

il Figlio di Dio.

Preferisce morire

piuttosto che tradire la verità.

Sul volto di Gesù, vero uomo,

risplende il volto di Dio.

Beati gli operatori di pace

Gesù è venuto a portare la pace,

quella vera, che nasce

dalla giustizia e dall’amore.

Il suo è un messaggio

di riconciliazione e di fraternità.

Egli abbatte

il muro delle divisioni;

spezza il cerchio della violenza

e rompe il vortice della vendetta

con l’amore che perdona.

Gesù risponde all’odio

con l’amore,

ama i nemici e prega per loro.

Gesù è la pace.

Nel sangue della sua Croce

gli uomini tornarono ad essere

figli di Dio e fratelli fra loro.

Beati i perseguitati

Gesù è perseguitato, giudicato

e ingiustamente condannato,

perché non è sceso a compromessi.

Ha preferito obbedire a Dio

piuttosto che agli uomini.

Si è consegnato volontariamente

nelle mani dei persecutori.

Con il suo amore obbediente distrugge

la disobbedienza del peccato;

con la sua morte vince la morte;

con la sua risurrezione

dona agli uomini

un futuro e una speranza

e li introduce nel regno di Dio.

Gesù è il regno di Dio.