
Oggi stiamo vivendo un momento di grande difficoltà. Da una parte l’emergenza del coronavirus ha portato ad una crisi sanitaria ed economica, che è sotto gli occhi di tutti. Ma questo disagio aggrava ulteriormente lo smarrimento che la società odierna sta passato. Non parliamo solo di crisi economica, ma ancora peggio: abbiamo perso la nostra identità e non sappiamo più chi siamo. E, dunque, è anche un problema sapere cosa vogliamo e cosa possiamo essere.
C’è una crisi morale, in cui molti valori che una volta erano fondamentali, hanno perso di importanza e viceversa motivi effimeri sono divenuti essenziali.
La via d’uscita dalla crisi è sempre più lontana. Oggi più che mai abbiamo bisogno di indicazioni riguardo a noi stessi. Dobbiamo capire come realizzarci in giusta maniera.
Il Discorso della Montagna è uno dei luoghi del Vangelo in cui tutto ciò viene proclamato. Si parla di chi è beato. Beato è chi si realizza pienamente come essere umano. E Gesù proclama appunto questo. Lo annuncia in forma paradossale. Perché la mentalità comune considera beato proprio chi fa il contrario di ciò che lui dice.

Approfondiamo oggi la prima delle otto Beatitudini, narrate dal Vangelo di Matteo.
«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Matteo 5, 3).
Rispetto alla mentalità di questo mondo, risulta paradossale che la povertà sia oggetto di gioia.
Chiunque vorrebbe combattere la povertà, giustamente, ma in questo passaggio della Bibbia, non parliamo tanto di povertà di tipo economico, ma piuttosto dei “poveri del Signore” della tradizione biblica, gli “anawim”, quelle anime che si abbandonano fiduciosamente nel Signore, proprio perché sono mendicanti di Dio.
Nell’umiltà riconoscono l’infinita grandezza di Dio e la propria piccolezza e non temono, ma affidano a Dio tutto se stessi e sanno di avere da lui la vita e tutto il bene.
Per cui l’atteggiamento è di un’anima umile, che confida solo nel Signore Dio (cfr. Sof 3,12).
I poveri in spirito sono i veri umili, coloro che, combattendo le difficoltà di tutti i giorni, hanno preso coscienza dei propri limiti. Questi hanno scoperto la loro povertà di esseri umani. Sanno che gli avvenimenti della vita sono legati solo in parte alla propria volontà.
I poveri in spirito sono quelli che capiscono che il loro io non è il centro del mondo e che il mondo non dipende da loro. Lo possono fare aprendosi agli altri. Lo possono fare aprendosi a Dio. E trovando in questa relazione la prospettiva e la forza, per vivere nel modo giusto quanto li può capitare.
Le persone al lato opposto sono coloro che hanno ogni pretesa di dominare e prevalere sull’altro, che hanno ogni egoistico possesso materiale o spirituale.
I poveri in spirito sono coloro che si riconoscono per quello che sono: un nulla davanti a Dio. L’umiltà è quindi riconoscere la nostra vera natura, la nostra povertà e la nostra piccolezza di fronte alla ricchezza e alla grandezza di Dio. Per questo il Regno dei Cieli appartiene a queste persone, perché confessano l’onnipotenza di Dio, lo accettano come Re della loro vita. Vivono già in questo regno.
Per Gesù proprio questi poveri sono i primi destinatari del Vangelo, della Buona Notizia del Regno di Dio che egli annuncia (cfr. Mt 11,5-6; Lc 4,18): venuto per narrare a ogni essere umano il volto di Dio (cfr. Gv 1,18), Gesù ha vissuto quale “mite e umile di cuore” (Mt 11,29) e ha testimoniato il Regno dei Cieli vivendo in prima persona un’esistenza colma di senso. Egli, infatti, aveva una ragione per la quale valeva la pena spendere la vita, fino alla morte: la libera scelta di amare tutti gli uomini suoi fratelli, persino i nemici.
Abbandono in Dio e difesa del debole sono i luoghi in cui “Dio regna” già ora, non in un futuro di là da venire.
Come detto la povertà che si racconta qui, non è un mancare di tutto, non è miseria o indigenza, ma è una rinuncia a possedere per sé: ciò che si ha e si è, va sempre condiviso con gli altri; ciò che si ha e si è, non va considerato come un privilegio, come un titolo di successo o di potere, ma occorre condividerlo, senza trattenerlo per sé…
Non lo si ripeterà mai abbastanza: il vero nome della povertà vissuta da Gesù Cristo, e dunque della povertà cristiana, è condivisione. Per questo il discepolo abbandona casa e campi per seguire Gesù, abbandona anche la sicurezza della famiglia per stare con lui (cfr. Mc 10,29 e par.); egli condivide con i poveri ciò che possiede, perché sa che il giudizio incombe e che nel giudizio Dio si mostra come vendicatore dei poveri, come colui che rende loro giustizia.

E la croce come esito di una vita vissuta nella giustizia rivela la povertà vera di Gesù: nessuno a difenderlo, nessuno a sostenerlo, come un uomo che non conta nulla per il potere e per la gente, un uomo solo e povero come il Servo sofferente di Isaia, come il giusto povero che nei Salmi può unicamente gridare a Dio, affidandogli tutta la propria vita!
Gesù è stato “il povero del Signore”, dalla nascita fino alla morte: è stato libero come può esserlo solo chi è povero nel cuore; è stato capace di accogliere le umiliazioni, sottomettendosi per amore a tutti coloro che incontrava, senza rispondere alla violenza con la violenza, ma continuando sempre a vivere nell’autentica, profonda povertà.
Gesù ha saputo ascoltare il grido del povero, davanti al quale si è invece tentati di distogliere lo sguardo. Così facendo, ha tracciato per noi un cammino preciso: dopo di lui, il povero che manca del necessario per vivere con dignità è “sacramento” di Cristo, perché con lui Gesù ha voluto identificarsi nel discorso sul giudizio finale (cfr. Mt 25,31-46), ma è nello stesso tempo “segno” dell’ingiustizia che vige nel mondo, del venir meno degli umani al comandamento dell’amore per il prossimo.
Solo attraverso l’assunzione della semplicità e la disponibilità a rendere ogni giorno povero il nostro cuore, “sulle tracce di Cristo” (cfr. 1Pt 2,21), giungeremo alla comunione fraterna: è così che nostro “è il regno di Dio” perché Dio regna nelle nostre vite; è così che si può sperimentare già qui e ora, immersi nel duro mestiere di vivere, la beatitudine dei poveri in spirito, concessa a chi si esercita a fare della propria esistenza un capolavoro di amore.
