Ho voluto creare questo blog per dirvi che Gesù è il Signore. Chi ha incontrato Gesù, non può tenerselo per sé, bensì è chiamato naturalmente ad annunciare la Buona Novella a tutte le altre persone, in particolare a chi ancora non lo conosce. Gesù è venuto per dirci che Dio ci ama e per salvare … Continua a leggere BENVENUTI!
Ci sono persone che trascorrono tutta la vita a cercare la “gioia piena” senza mai afferrarla davvero, perdendosi tra delusioni e traguardi evanescenti. E poi ci sono persone che a un certo punto decidono di mettersi in gioco per trovare il tassello mancante e raggiungere la felicità. Come Chiara, schiacciata da una vita mediocre, monotona … Continua a leggere Un incredibile giro del mondo
Che cosa devo intraprendere per vivere da persona umana? Quali valori devo realizzare? La luce della coscienza morale, cioè la capacità di distinguere il bene e il male e di agire di conseguenza, è la prima guida sulla via della giustizia e dell’amore. Ma la coscienza è sottoposta alla pressione degli istinti e di una … Continua a leggere La via delle Beatitudini
“La guerra è una follia, perché è folle distruggere case, ponti, fabbriche, ospedali, uccidere persone e annientare risorse anziché costruire relazioni umane ed economiche.
È una pazzia alla quale non ci possiamo rassegnare, mai.
Mai la guerra potrà essere scambiata per normalità o accettata come via ineluttabile per regolare divergenze e interessi contrapposti, mai.
Il fine ultimo di ogni società umana rimane la pace, tanto che si può ribadire che «non c’è alternativa alla pace, per nessuno».
Non c’è alcuna alternativa sensata alla pace, perché ogni progetto di sfruttamento e supremazia abbruttisce chi colpisce e chi ne è colpito, e rivela una concezione miope della realtà, dato che priva del futuro non solo l’altro, ma anche se stessi.
La guerra appare così come il fallimento di ogni progetto umano e divino: basta visitare un paesaggio o una città, teatri di un conflitto, per accorgersi come, a causa dell’odio, il giardino si trasformi in una terra desolata e inospitale e il paradiso terrestre in un inferno”.
Sono queste le parole di papa Francesco riguardo alla guerra, che ha pronunciato ai vescovi del Mediterraneo, citando la Conclusione del dialogo con i capi delle Chiese e delle comunità cristiane del Medio Oriente, a Bari, il 7 luglio 2018.
La guerra è sempre una grande sciagura
Comunemente si ritiene che sia lecito a uno Stato respingere con le armi l’ingiusta aggressione da parte di un altro Stato: si considera lecita la guerra di difesa.
Anche i cristiani pensano che non sia giusto impedire a un popolo di difendere la propria identità e sopravvivenza.
Ma la guerra, anche di difesa, è sempre un’incalcolabile tragedia.
La guerra è certamente il mezzo più sbagliato per risolvere i problemi e le tensioni fra i popoli, e nessuno sforzo per impedirla deve essere considerato eccessivo.
Le vie della pace
Per questo i cristiani si impegnano contro la guerra, in favore della pace.
Essi non condividono la logica espressa dal detto degli antichi Romani: “Si vis pacem, para bellum”, cioè “Se vuoi la pace, prepara la guerra”.
Non credono che i sempre più sofisticati sistemi di difesa e l’accrescimento vertiginoso degli armamenti servano alla causa della pace, spaventando il nemico per dissuaderlo da una aggressione bellica.
La via della pace è invece quella della progressiva diminuzione ed eliminazione degli armamenti, dando sempre maggior efficacia a organismi internazionali che compongono le tensioni e stabiliscono la giustizia attraverso la legge e la ragione.
Creare una mentalità di pace
Tutti noi dobbiamo sensibilizzarci al grande ideale della pace e credere che può essere progressivamente realizzato.
Infondo Gesù è il Principe della pace, Egli è venuto in questo mondo per donare la pace.
Solo in Lui possiamo trovare la vera pace:
prima di tutto, pace con Dio. Gesù è il Principe di Pace, perché il Suo sacrificio ci riconcilia con Dio;
in seguito pace nel cuore, una pace che non potrai mai trovare da nessun’altra parte.
Gesù ha parlato di una pace che Lui è venuto a portare, diversa dalla pace che offre il mondo. Non significa quindi la mancanza di guerra o di conflitti, ma è il modo di essere che nasce dopo l’incontro con Lui.
“Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi” (Gv 14, 27).
Appare subito netta la distinzione tra la pace di Gesù e quella del mondo, intesa da San Giovanni Evangelista come la realtà non solo distinta da Gesù, ma addirittura in opposizione a Lui.
E il testo continua, concludendo il versetto con le parole: “Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore” (Gv 14, 27).
La pace di Gesù assicura una serenità interiore, una tranquillità che non dimentica le insidie del mondo (cfr. Gv 16, 2) e del suo capo (cfr. Gv 16, 33; 14, 30), eppure rimane ferma e granitica.
La prima parola del Signore dopo la Risurrezione ai suoi discepoli è “Pace a voi”.
Non è da sottendere un “sia”, quasi si trattasse di un bell’auspicio o augurio, ma un “è”, presente indicativo che esprime la realtà.
Si tratta del primo dono che il Risorto porge alla sua comunità, cioè la Chiesa.
L’autore tedesco, W. Trilling, parafrasa la Beatitudine sugli operatori di pace, in questo modo: “Beati quelli che nella vita quotidiana portano la pace, riconciliano i nemici, spengono gli odi, uniscono i cuori divisi, con un piccolo gesto, con una parola conciliante, ma che sale da un cuore pieno di Dio!”.
Dobbiamo compiere gesti concreti di pace nell’ambiente in cui viviamo e impegnarci a creare una diffusa mentalità di pace, di nonviolenza, di collaborazione e di amore.
I cristiani che accettano di fare il servizio militare, devono essere animati da questo spirito di pace.
Come si legge riguardo ai credenti dei primi secoli, essi amano la patria, sono disposti anche a dare la vita per la sua sicurezza e libertà, ma non si lasciano contagiare da un irragionevole orgoglio nazionale, da un infausto spirito di conquista, dall’odio per i nemici, perché per loro tutti gli uomini sono fratelli e sorelle, a qualunque razza o popolo appartengano.
L’obiezione di coscienza per la pace
Quando invece il cristiano rifiuta il servizio militare, che comporta l’uso delle armi, deve farlo non per motivi egoistici, ma per matura scelta di coscienza.
La cosiddetta obiezione di coscienza trova ampia motivazione nel messaggio non violento di Gesù ed è un gesto profetico, che molto può contribuire all’avanzamento della causa della pace.
Ovviamente l’obiettore di coscienza cristiano non misconosce e tanto meno odia la sua patria. La ama invece in modo diverso ma non per questo meno intenso, e non si esime affatto delle sue responsabilità verso di essa.
Nel caso di un’aggressione ingiusta della sua nazione, anche lui deve contribuire, benché con mezzi non violenti, alla difesa del suo popolo.
La vita è dono di Dio. Nessun uomo è padrone della propria vita o di quella degli altri.
È questa la profonda convinzione che troviamo nella Bibbia, dal categorico comandamento del decalogo “Non uccidere”, fino al totale rifiuto della violenza e della vendetta da parte di Gesù Cristo, come abbiamo letto nel Discorso della Montagna (cfr. Mt 5, 38-39.43-45).
“Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente;
ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; […]
Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico;
ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori,
perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti.”
Questa continua ancora ad essere la convinzione dei cristiani.
Molti sono purtroppo i modi con i quali si può danneggiare o sopprimere la vita umana.
Qui se ne fa un’analisi alla luce della Parola di Dio e dell’insegnamento della Chiesa, sottolineando soprattutto le ragioni che spingono a un impegno sempre più generoso per custodire e difendere la vita.
Secondo Papa Francesco dobbiamo coltivare la cultura della vita, che significa “prendersi cura dell’altro, volere il suo bene, rispettare la sua dignità”.
Il pontefice afferma inoltre che “il grado di progresso di una civiltà si misura dalla capacità di custodire la vita e per questo sono un attentato alla vita sia il terrorismo, la guerra, la violenza, la denutrizione, l’indifferenza, l’aborto e l’eutanasia”.
“Non uccidere”
Un uomo che uccide un altro uomo. Questo fatto orrendo si è ripetuto infinite volte nella storia: fin dal suo inizio, dice il racconto biblico del uccisione di Abele da parte del fratello Caino (cfr. Gn 4, 3-16).
Si uccide per motivi economici, per invidia e gelosia, per odio e vendetta, per desiderio di supremazia…
Sempre e ancora oggi come ci mostrano i giornali, la radio e la televisione…
L’omicidio è un male gravissimo, condannato dalla coscienza morale di tutti gli uomini e punito severamente dalla legge.
Ma qual è la punizione giusta per chi ha commesso un omicidio? Chi ha ucciso un uomo deve a sua volta essere ucciso?
Così è stato presso tanti popoli, fino a un tempo non molto lontano da noi. Specialmente dopo la Seconda Guerra Mondiale, molti Stati hanno abolito la pena di morte; ce ne sono invece alcuni che ancora la mantengono, ma le esecuzioni capitali sono rare.
Questa abolizione è in genere motivata dalla volontà di superare la componente di “barbarie” che caratterizza la pena di morte, dal pericolo di colpire degli innocenti e dalla convinzione che sia possibile recuperare in certa misura qualunque uomo, anche il più malvagio.
Per i cristiani l’abolizione della pena di morte è in perfetta sintonia con lo spirito del Vangelo.
Così pure essi sono sollecitati dallo stesso Vangelo a credere nella recuperabilità dei colpevoli e devono impegnarsi perché possa concretamente realizzarsi. In modo particolare, i cristiani puntano sulla prevenzione della delinquenza, attraverso il miglioramento delle strutture economiche, sociali, politiche e attraverso l’azione educativa della famiglia, della scuola, dei gruppi e associazioni, dei mezzi della comunicazione sociale.
Si uccide anche lasciando morire…
Tutti restiamo fortemente colpiti dall’uccisione di un uomo da parte di un altro uomo.
Il fatto invece che nel Terzo Mondo milioni di esseri umani muoiono ogni anno per la denutrizione o per carenza di cure mediche desta un’impressione molto minore o non impressiona per nulla. Stessa cosa succede con le guerre vicino a noi, come in Siria, con i profughi, con i cristiani perseguitati in tutto il mondo.
Forse non ci colpisce, perché si tratta di persone lontane e perché si pensa che ai loro bisogni debbano provvedere gli Stati…
In realtà, anche se in diversa misura, dobbiamo sentirci tutti responsabili delle infinite uccisioni per fame e per mancanza di cure sanitarie.
E ognuno deve fare la sua parte, impegnandosi personalmente e sensibilizzando l’opinione pubblica, perché venga cancellato questo orribile scandalo.
Difendere la vita fin dal suo concepimento.
I cristiani sono convinti che il rispetto per la vita sia uno dei valori più preziosi.
Per questo si impegnano a diffonderlo il più possibile anche fra i non cristiani.
I cristiani ritengono che non sia lecita l’eliminazione del bambino nel grembo materno, l’aborto procurato, perché il bambino è una persona umana fin dal suo concepimento.
L’aborto è infatti un gravissimo male sociale, un peccato che si oppone al comandamento di Dio “Non uccidere”.
Soltanto per salvare la vita della madre, minacciata da un serio pericolo di morte, è lecito accettare, come conseguenza inevitabile, la morte del bambino.
Non sono invece sufficienti altri motivi come la povertà, le difficoltà psicologiche della madre, la situazione problematica della famiglia, le esigenze sociali o economiche, per dichiarare lecita la soppressione di una vita umana.
Gli Stati hanno una legislazione che regola la materia dell’aborto. Nel nostro tempo essi tendono normalmente a depenalizzarlo.
Per i cristiani, il fatto che lo Stato non persegua penalmente chi pratica l’aborto, non toglie niente allo stretto dovere di coscienza di preservare la vita innocente e indifesa del bambino nel grembo materno.
Essi, che sono contro ogni violenza, non possono non condannare in modo assoluto la violenza dell’aborto. È però loro dovere essere attenti ai problemi delle persone che abortiscono, fino a sentirsi responsabili di certe situazioni sociali che possono spingere all’aborto e devono impegnarsi sinceramente per trasformarle.
Sempre dalla parte della vita.
Perché non è giusto dare la morte “per pietà”.
Ci sono delle persone che, per paura della sofferenza e della morte o perché non hanno più interesse per la vita, chiedono una fine indolore con l’eutanasia, parola greca che significa “bella morte”.
I cristiani ritengono che non sia mai lecito togliere la vita a un uomo, neppure dietro sua esplicita richiesta.
Spinti dell’amore, essi cercano invece ogni mezzo per alleviare il suo dolore, per sostenerlo nella prova, per incoraggiarlo.
Alla luce della passione e morte di Gesù, i cristiani vedono nella sofferenza la possibilità di realizzare un’esperienza di fede e di amore che ha un valore incalcolabile.
Dinanzi alla sofferenza e alla malattia i credenti sono invitati a non perdere la serenità, perché nulla, nemmeno la morte, può separarci dall’amore di Cristo.
In Lui e con Lui è possibile affrontare e superare ogni prova fisica e spirituale e, proprio nel momento di maggiore debolezza, sperimentare i frutti della Redenzione.
Il Signore risorto si manifesta, in quanti credono in Lui, come il vivente che trasforma l’esistenza dando senso salvifico anche alla malattia ed alla morte.
Il presidente francese Francois Mitterand, malato di tumore, disse di volersi opporre all’eutanasia: “Non ho abolito la pena di morte per poi reintrodurla in un’altra forma!”.
Il dramma del rifiuto della vita.
Ogni persona sana ha un grande attaccamento alla vita.
La delusione per una esistenza sbagliata o fallita, il grande dispiacere per disgrazie subite, l’ossessiva preoccupazione per l’avvenire, la convinzione dell’inutilità e assurdità della vita, il rimorso per il male commesso, la disperazione… possono portare a compiere il tragico gesto di togliersi la vita.
I cristiani ritengono che per nessun motivo l’uomo abbia il diritto di uccidersi. La vita è un dono di Dio di cui non si può disporre a piacimento: ci è stata data per il bene nostro e degli altri uomini e per questo scopo deve essere vissuta fino al momento voluto da Dio.
Chi in piena coscienza e libertà fa violenza a se stesso, dandosi la morte, commette un gravissimo peccato.
Ma spesso il suicidio è dovuto a stati di profondo turbamento o depressione, a malattie psichiche, che possono togliere completamente la responsabilità.
I cristiani sanno di non avere in nessun caso i dati sufficienti per giudicare chi si è tolta la vita né il diritto di farlo: essi affidano questo loro fratello alla misericordia di Dio e pregano per lui.
Non mettere in pericolo la vita.
La vita è un grandissimo valore. Per questo non è cosa giusta e ragionevole, quando non ci sia una vera e pressante necessità, mettere in pericolo la vita propria o quella degli altri.
Esistono sport e lavori altamente pericolosi. La loro pratica non è giustificata né dal brivido, né tanto meno dall’interesse economico.
La società deve operare responsabilmente per l’eliminazione di questi pericoli.
Inoltre l’uso di droghe e l’utilizzo eccessivo di alcol e di tabacco possono danneggiare gravemente la salute e portare anche alla morte. Per eliminare questi mali, al di là dell’azione sociale, resta fondamentale l’impegno della persona.
La grande forza della nonviolenza.
Dall’esempio di Gesù i cristiani si sentono sollecitati a praticare fino in fondo, in modo anche eroico, la nonviolenza.
Preferiscono essere uccisi che uccidere, mettendo totalmente la loro vita nelle mani di Dio, sicuri che la restituirà loro migliore dopo la morte.
Essi non possono non condividere pienamente queste parole di Gandhi, instancabile predicatore della nonviolenza: “La non violenza é la forza più grande di cui disponga l’umanità… L’uomo vive liberamente in quanto è pronto a morire, se necessario, per mano di un suo fratello, mai a ucciderlo”.
In conclusione riprendiamo nuovamente le parole di papa Francesco, che afferma che una società giusta riconosce come primario il diritto alla vita dal concepimento fino al suo termine naturale.
Il Santo Padre ci invita anche a “mantenere alto lo sguardo sulla sacralità di ogni persona umana, perché la scienza sia veramente al servizio dell’uomo, e non l’uomo al servizio della scienza”.
Dichiara inoltre: “Purtroppo nella nostra epoca, così ricca di tante conquiste e speranze, non mancano poteri e forze che finiscono per produrre una cultura dello scarto; e questa tende a divenire mentalità comune”.
Una delle conseguenze di questa cultura del mercato, dell’“io assoluto”, fa sì che si metta da parte tutto ciò che non serve, ciò che disturba, la così detta cultura dello scarto.
Dice ancora il Pontefice a riguardo: “Le vittime di tale cultura sono proprio gli esseri umani più deboli e fragili, cioè i nascituri, i più poveri, i vecchi malati, i disabili gravi, che rischiano di essere scartati, espulsi da un ingranaggio che dev’essere efficiente a tutti i costi”.
“Questo falso modello di uomo e di società attua un ateismo pratico negando di fatto la Parola di Dio che dice: <Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza>“.
Per Bergoglio, va riconosciuta e rispettata “una dignità originaria di ogni uomo e donna, insopprimibile, indisponibile a qualsiasi potere o ideologia”.
Ed è proprio “la forza della Parola” sull’uomo creato da Dio “a Sua Immagine” che, secondo Papa Francesco, “pone dei limiti a chiunque voglia rendersi egemone prevaricando i diritti e la dignità altrui”.
Ma occorre farsi interrogare da questa Parola e non lasciarla mai nel dimenticatoio: “Se lasciamo che essa interpelli la nostra coscienza personale e sociale, se lasciamo che metta in discussione i nostri modi di pensare e di agire, i criteri, le priorità e le scelte, allora – ha spiegato infatti il Pontefice – le cose possono cambiare”.
Essa, inoltre, “nel medesimo tempo, dona speranza e consolazione a chi non è in grado di difendersi, a chi non dispone di mezzi intellettuali e pratici per affermare il valore della propria sofferenza, dei propri diritti, della propria vita”.
Amore, parola ambigua sotto il cui dolce suono molte volte si contrabbanda il più nero egoismo.
Diciamo “ti amo”, ma in realtà amiamo solo noi stessi e riduciamo l’altro a strumento della nostra affermazione e del nostro piacere.
Si può giungere addirittura a chiamare col nome “amore” la più terribile violenza,
quella che uccide ed elimina l’altro che disturba e da fastidio:
il malato incurabile
il vecchio “inutile”
il bambino non ancora nato
l’oppositore irriducibile.
E tutto questo è chiamata “civiltà”.
Civiltà è amarsi.
La sola verità è amarsi.
Ma la verità dell’amore è la rinuncia a se stessi, perché l’altro abbia la vita e la gioia.
La verità dell’amore parte dalla giustizia che accetta l’altro con i suoi pregi e i suoi difetti.
“Chi ama è paziente e premuroso. È buono. Chi ama non è geloso, non si vanta, non si gonfia di orgoglio.
Chi ama è rispettoso, non va in cerca del proprio interesse, non conosce la collera, dimentica i torti.
Chi ama rifiuta l’ingiustizia, la verità è la sua gioia.
Chi ama, tutto scusa, di tutti ha fiducia, tutto sopporta, non perde mai la speranza.
L’amore non tramonterà mai. “ cfr. 1 Cor 13, 4-8
A questo proposito, si insegna Santa Teresa di Calcutta:
La peggiore malattia oggi
è il non sentirsi desiderati
né amati, il sentirsi abbandonati.
Vi sono molte persone al mondo
che muoiono di fame,
ma un numero ancora maggiore
muore per mancanza d’amore.
Ognuno ha bisogno di amore.
Ognuno deve sapere
di essere desiderato, di essere amato,
e di essere importante per Dio.
Vi é fame d’amore,
e vi é fame di Dio.
Santa Teresa di Calcutta
L’egoismo uccide, l’amore fa vivere.
Nel loro giudizio sulle azioni umane, per poter dire se sono “buone” o “cattive”, i cristiani si lasciano guidare dalla ragione illuminata dalla fede.
Per questo si mettono in ascolto della Parola di Dio, espressa anzitutto nella Bibbia.
Quanto dice la Bibbia sulla vita?
“Vita” e “vivere” sono tra le parole che ricorrono con maggiore frequenza nelle Sacre Scritture.
Dal primo capitolo della Genesi, che presenta Dio creatore della vita (quella della Terra, delle piante, degli animali e soprattutto dell’uomo e della donna), fino all’ultimo capitolo dell’Apocalisse, che è un inno al trionfo pieno e definitivo della vita sulla morte.
Dio è per la vita, Dio è il Vivente, Colui che dà all’uomo la vita. La vita viene da Lui (cfr. Gn 2, 7): è un Suo dono prezioso.
Perciò la vita è sacra.
Dio ama la vita e vuole che perduri e si diffonda (cfr. Gn 1, 22.28).
Dio prende la vita umana sotto la Sua protezione e proibisce l’uccisione dell’uomo (cfr. Gn 4, 10-12 e 9, 5). Vedi anche il 5° comandamento: “Non uccidere” (cfr. Es 20, 13 e Dt 5, 7).
Dio non si compiace della morte di nessuno (cfr. Ez 18, 23), perché Egli “non è un Dio dei morti, ma dei viventi!” (Mc 12, 27).
Gesù ci rivela il valore e il senso della vita. Attraverso le sue parole e le sue azioni, Gesù mostra che la vita è un bene prezioso: “salvare una vita” è più importante della stessa osservanza religiosa del Sabato (cfr. Mc 3, 4).
Gesù guarisce e restituisce la vita, perché Egli stesso è la vita (cfr. Gv 14, 6).
Ma pure essendo così preziosa, la vita fisica non è il bene più grande per l’uomo: per non perdere l’amore di Dio egli deve essere disposto anche a sacrificare la propria vita, come fa fatto Gesù con la morte in croce. Ma per questo suo amore totale, Dio Padre “gli ha dato nella Risurrezione una nuova vita”: una vita gloriosa, che non conosce più la morte.
Coloro che credono in Gesù Cristo, attraverso il Santo Battesimo sono diventati già partecipi di questa “vita nuova” (cfr. Rm 6, 10) e sono in attesa della partecipazione piena e definitiva, dopo la morte.
Nell’Antico Testamento troviamo il comandamento di Dio: “Amerai il tuo prossimo come te stesso” (Levitico 19, 18). Nel Vangelo Gesù riconferma questo comandamento (cfr. Mt 22, 39; Mc 12, 31; Lc 10, 27), spiegando che nel prossimo sono compresi tutti gli uomini e le donne, senza nessuna esclusione, neppure quella dei nemici (cfr. Mt 5, 21-26.38-48; Lc 10, 29-37).
Ancora nell’Antico Testamento troviamo questa norma: “Non fare a nessuno ciò che non piace a te” (Tobia 4, 15).
È la formula in negativo della cosiddetta “regola d’oro” della morale. Essa viene espressa in positivo da Gesù: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” (Mt 7, 12).
Proposto così, il comandamento dell’amore del prossimo diventa molto impegnativo: la misura dell’aiuto non è più la giustizia, ma l’impegno per un bene sempre più grande, come ciascuno desidera per se stesso.
Il comandamento dell’amore, è un comandamento per la vita.
Ispirandosi all’esempio e alla parole di Gesù, fin dall’antichità i cristiani hanno elaborato un elenco dei principali gesti di aiuto verso il prossimo: sono le opere di misericordia corporali e spirituali o anche dette opere dell’amore.
Le opere di misericordia corporale
Dar da mangiare agli affamati
Dar da bere agli assetati
Vestire gli ignudi
Alloggiare i pellegrini
Visitare gli infermi
Visitare i carcerati
Seppellire i morti
Le opere di misericordia spirituale
Consigliare i dubbiosi
Insegnare agli ignoranti
Ammonire i peccatori
Consolare gli afflitti
Perdonare le offese
Sopportare pazientemente le persone moleste
Pregare Dio per i vivi e per i morti
Vediamole più da vicino.
Le opere di misericordia corporale
1) Dar da mangiare agli affamati e 2) dar da bere agli assetati
Queste due prime opere di misericordia corporale sono complementari e si riferiscono all’aiuto che dobbiamo dare in cibo e altri beni a chi più ne ha bisogno, a coloro che non hanno l’indispensabile per poter mangiare ogni giorno.
Gesù, come dice il Vangelo di San Luca, raccomanda: “Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto” (Lc 3, 11).
3) Vestire gli ignudi
Quest’opera di misericordia tende a venire incontro a una necessità fondamentale: il vestito. Spesso ci viene richiesta la raccolta di indumenti che si fa nelle parrocchie o in altri centri di assistenza. Nel momento di donare i nostri indumenti, è bene pensare che possiamo dare cose per noi superflue o che non ci servono più, ma anche qualcosa che ci è ancora utile.
Nella lettera di San Giacomo veniamo incoraggiati a essere generosi: “Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, che giova?” (Gc 2, 15-16).
4) Ospitare i pellegrini
Anticamente, dare ospitalità ai viaggiatori era una questione di vita o di morte, dati i disagi e i rischi dei viaggi. Oggi non è più così. Ma potrebbe comunque accaderci di ricevere qualcuno in casa nostra, non per semplice ospitalità verso un amico o un familiare, ma per un vero caso di necessità.
5) Visitare gli infermi
Si tratta di una vera assistenza ai malati e agli anziani, sia in ciò che riguarda l’aspetto fisico, sia facendo loro compagnia per un po’ di tempo.
L’esempio migliore della Sacra Scrittura è quello della parabola del buon samaritano, che si prese cura del ferito e, non potendo continuare a occuparsene direttamente, lo affidò alle cure di un altro, pagando di tasca propria (cfr. Lc 10, 30-37).
6) Visitare i carcerati
Consiste nel far visita ai carcerati, dando loro non soltanto un aiuto materiale ma un’assistenza spirituale, perché possano migliorare come persone e correggersi, magari imparando a svolgere un lavoro che possa essere loro di aiuto quando sarà terminato il periodo di detenzione.
Invita anche ad adoperarsi per liberare gli innocenti e chi è stato sequestrato. Anticamente i cristiani pagavano per liberare gli schiavi o si offrivano in cambio di prigionieri innocenti.
7) Seppellire i morti
Cristo non aveva un luogo dove posare il capo. Un amico, Giuseppe d’Arimatea, gli cedette la propria tomba. Non soltanto, ma ebbe il coraggio di presentarsi a Pilato e di chiedergli il corpo di Gesù. Partecipò anche Nicodemo, che aiutò a seppellirlo (cfr. Gv 19, 38-42).
Seppellire i morti sembra un ordine superfluo, perché, di fatto, tutti vengono seppelliti. Però, per esempio, in tempo di guerra può essere una necessità pressante oppure in questo tempo che stiamo vivendo, durante la pandemia di Covid-19, dove anche il seppellire i morti è diventato insolito.
Perché è importante dare una degna sepoltura al corpo umano? Perché il corpo umano è stato dimora dello Spirito Santo. Siamo “tempio dello Spirito Santo” (1 Cor 6, 19).
Le opere di misericordia spirituale
1) Consigliare i dubbiosi
Uno dei doni dello Spirito Santo è il dono del consiglio. Per questo colui che vuol dare un buon consiglio deve, prima di ogni cosa, essere in sintonia con Dio, perché non si tratta di dare opinioni personali, ma di consigliare bene chi ha bisogno di una guida.
2) Insegnare agli ignoranti
Consiste nell’insegnare all’ignorante le cose che non sa: anche in materia religiosa.
Si evoca qui la strana condizione dell’uomo, e specialmente dell’uomo di oggi, che sa tutto tranne le cose che contano, che porta a termine le indagini più complicate ed è muto davanti alle domande fondamentali e più semplici, che è in grado di andare a raccogliere i sassi sulla luna e non può dirsi che cosa è venuto a fare sulla terra.
Ignorare quale sia il significato del nostro stesso vivere; ignorare quale sia il destino che alla fine ci aspetta; ignorare se la nostra venuta all’esistenza abbia come premessa e come ragione un disegno d’amore oppure una casualità cieca.
Il primo e più grande atto di carità che possa essere compiuto verso l’uomo è quello di dirgli le cose come stanno. Che vuol dire anche svelargli la sua autentica identità. Il cristiano deve annunciare instancabilmente la verità.
Come dice il libro di Daniele, “coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre” (Dn 12, 3).
3) Ammonire i peccatori
Quest’opera di misericordia si riferisce soprattutto al peccato. Si tratta di correggere colui che si sbaglia.
La correzione fraterna è spiegata proprio da Gesù nel vangelo di Matteo: “Se il tuo fratello commette una colpa, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà avrai guadagnato il tuo fratello” (Mt 18, 15).
Dobbiamo correggere il nostro prossimo con mansuetudine e umiltà. Spesso sarà difficile farlo, ma in questi casi possiamo ricordare ciò che dice l’apostolo Giacomo alla fine della sua lettera: “Chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore, salverà la sua anima dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati” (Gc 5, 20).
4) Consolare gli afflitti
La consolazione dell’afflitto, di colui che attraversa qualche difficoltà, è un’altra opera di misericordia spirituale.
Spesso sarà completata dal buon esempio, che aiuti a superare questa situazione di dolore o di tristezza. Rimanere vicino ai nostri fratelli in ogni momento, ma soprattutto in quelli più difficili, significa mettere in pratica il comportamento di Gesù che s’immedesimava nel dolore altrui.
Un esempio lo troviamo nel Vangelo di San Luca. Si tratta della risurrezione del figlio della vedova di Nain: “Quando fu vicino alla porta della città, ecco che veniva portato al sepolcro un morto, figlio unico di madre vedova; e molta gente della città era con lei. Vedendola, il Signore ne ebbe compassione e le disse: ‘Non piangere!’. E accostatosi toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: ‘Giovinetto, dico a te, alzati’. Il morto si levò a sedere e incominciò a parlare. Ed egli lo diede alla madre” (Lc 7, 12-15).
5) Perdonare le offese
Nel Padre Nostro diciamo: “Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”, e il Signore stesso preciserà: “Se voi perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi” (Mt 6, 14).
Perdonare le offese vuol dire superare la vendetta e il risentimento. Significa trattare con amabilità coloro che ci hanno offeso.
Nell’Antico Testamento l’esempio migliore di perdono è quello di Giuseppe, che perdonò i suoi fratelli che avevano pensato di ucciderlo e poi lo avevano venduto: “Ma ora non vi rattristate e non vi crucciate per avermi venduto quaggiù, perché Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita” (Gn 45, 5).
Il più grande perdono del nuovo Testamento è quello di Cristo sulla Croce, che ci insegna che dobbiamo perdonare tutto e sempre: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23, 34).
6) Sopportare pazientemente le persone moleste
La pazienza, quando si è alle prese con i difetti altrui, è una virtù ed è un’opera di misericordia.
Tuttavia, ecco un consiglio molto utile: quando sopportare i difetti degli altri causa più danno che bene, bisogna farli notare con molta carità e amabilità.
7) Pregare Dio per i vivi e per i morti
San Paolo raccomanda di pregare per tutti, senza distinzione, anche per chi ci governa e per le persone che hanno responsabilità, perché Egli “vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1 Tm 2, 4).
I morti che si trovano nel Purgatorio dipendono dalle nostre preghiere. È una buona opera pregare per loro, affinché siano assolti dai loro peccati (cfr. 2 Mac 12, 45).
Le opere di misericordia richiamano chiaramente delle precise parole di Gesù, che abbiamo gustato ultimamente, quelle delle Beatitudini (cfr. Mt 5, 3-12) e queste altre:
“Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi” (Mt 25, 35-36).
Il racconto della seconda venuta di Gesù prosegue in questo modo. I giusti rispondono a Gesù: “Signore, quando mai ti abbiamo fatto questo?”
“Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me.”
Si conclude affermando che i giusti avranno la vita eterna (cfr. Mt 25, 31-46)
Dal 8 dicembre 2015 al 20 novembre 2016, papa Francesco ha proclamato il Giubileo straordinario della misericordia. In questa occasione il Santo Padre ci ha chiesto di riscoprire le opere della misericordia, “per risvegliare la nostra coscienza spesso assopita davanti al dramma della povertà e per entrare sempre di più nel cuore del Vangelo, dove i poveri sono i privilegiati della misericordia divina”.
Che effetti hanno le opere di misericordia?
Comunicano la grazia di Dio a chi le esercita.
Ci fanno assomigliare a Gesù, il nostro modello, che ci ha insegnato come deve essere il nostro atteggiamento verso gli altri.
Riducono la pena della nostra anima per i nostri peccati.
Ci fanno avanzare nel cammino verso il Cielo, nel cammino di santità.
L’elenco delle opere di misericordia può essere allungato, reso più rispondente alle esigenze di oggi e più adeguato alle capacità di ciascuno.
Per tutti noi, esse diventano un modo concreto di esprimere l’amore del prossimo e di promuovere la vita.
Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa;
quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!
Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro son lupi rapaci.
Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi?
Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi;
un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni.
Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco.
Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere.
Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli.
Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demòni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome?
Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità.
Matteo 7, 13-23
Oggi raggiungiamo la parte finale del Discorso della Montagna.
Gesù ci indica che per salvarci, dobbiamo percorrere la via più difficile e scomoda e la porta stretta, per la quale entreranno tutti quelli che riescono a capire fino in fondo la lieta novella dell’amore di Gesù.
Se tutti gli esseri umani accettassero di amare gli altri come amano se stessi, il mondo sarebbe profondamente diverso, migliore.
Invece diverso non è, perché l’egoismo è imperante, perché anche noi che ci professiamo cristiani non abbiamo il coraggio, al momento buono, di essere coerenti, di volere per gli altri il bene che vogliamo per noi, di evitare di fare agli altri il male che non sopporteremmo se fosse fatto a noi.
Cristo è la porta (cfr. Gv 10, 9) che ci introduce a Dio Padre e, in comunione con Lui, godremo della sua misericordia, della sua protezione e del suo amore.
La porta è stretta perché ci vengono richiesti dei sacrifici, dobbiamo reprimere il nostro orgoglio, toglierci da addosso il peso delle nostre mancanze ed eliminare ogni timore di aprire il cuore con umiltà.
È stretta, ma è sempre spalancata.
“Vorrei farvi una proposta – diceva Papa Francesco – Pensiamo adesso, in silenzio, per un attimo alle cose che abbiamo dentro di noi e che ci impediscono di attraversare la porta: il mio orgoglio, la mia superbia, i miei peccati. E poi, pensiamo all’altra porta, quella spalancata dalla misericordia di Dio che dall’altra parte ci aspetta per darci il suo perdono”.
Nel discorso Gesù poi afferma, che per tutti i discepoli di Cristo c’è un insidia, i falsi profeti.
L’analogia con quelli dell’Antico Testamento ci permette di descriverli. Essi somigliano ai veri profeti, pretendono si essere tali, ma in realtà non lo sono, perché assecondano i vizi degli esseri umani invece di flagellarli, li cullano in una fatale sicurezza e tolgono il rimorso distruggendo il senso del peccato.
Un test infallibile per riconoscerli è giudicarli dai frutti, che li manifestano per quelli che sono.
La prospettiva del giudizio di Cristo lega insieme tutti i versetti nella parte finale del Discorso.
Davanti al Giudice divino le parole non basteranno per evitare l’esclusione dal Regno.
Neppure i carismi più spettacolari serviranno a sfuggire alla terribile sentenza: “Chi siete voi? Non vi ho mai conosciuto, allontanatevi da me!”, nemmeno sarà sufficiente aver ascoltato, ma sarà indispensabile l’obbedienza fedele al Padre e il mettere in pratica le parole che si sono udite.
Non si salvano le persone che parlano continuamente di Dio, ma che non fanno la volontà di Dio, che usano il nome di Gesù, ma non traducono in vita il loro rapporto con il Signore.
Non basta parlare, bisogna praticare!
L’importante non è parlare in modo bello di Dio o saper spiegare bene la Bibbia agli altri, bensì fare la volontà del Padre e, così, essere una rivelazione del suo volto e della sua presenza nel mondo.
La stessa raccomandazione la fece Gesù a quella donna che elogiò Maria, sua madre. Gesù rispose: “Beati coloro che ascoltano la Parola e la mettono in pratica” (Lc 11, 28).
Ci sono persone che vivono nell’illusione di lavorare per il Signore, ma nel giorno dell’incontro definitivo con Lui, scopriranno, tragicamente, che non l’hanno mai conosciuto.
I doni devono stare al servizio del Regno, della comunità.
C’erano persone con doni straordinari, come per esempio il dono della profezia, dell’esorcismo, delle guarigioni, ma usavano questi doni per loro, fuori dal contesto della comunità.
Nel giudizio, loro udiranno una sentenza dura da parte di Gesù: “Allontanatevi da me voi che praticate l’iniquità! ”
L’iniquità è l’opposto alla giustizia.
È fare con Gesù ciò che i dottori facevano con la legge: insegnare e non praticare (cfr. Mt 23, 3).
San Paolo dirà la stessa cosa con altre parole ed argomenti: “E se avessi il dono della profezia e conoscessi i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per essere bruciato, ma non avessi la carità, niente mi gioverebbe.”(1Cor 13,2-3).
Un insegnamento non solo da ascoltare, ma da vivere
Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia.
Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sopra la roccia.
Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, è simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia.
Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde, e la sua rovina fu grande”.
Quando Gesù ebbe finito questi discorsi, le folle restarono stupite del suo insegnamento:
egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità e non come i loro scribi.
Matteo 7, 24-29
Per mezzo della parabola finale della casa costruita sulla roccia e della casa costruita sulla spiaggia, San Matteo denuncia e, nello stesso tempo, cerca di correggere la separazione tra fede e vita, tra parlare e fare, tra insegnare e praticare.
Aprirsi e praticare, ecco la conclusione finale del Discorso della Montagna.
Molta gente cerca la sua sicurezza nei doni straordinari o nelle osservanze. Ma la vera sicurezza non viene dal prestigio o dalle osservanze.
Viene da Dio! Viene dall’amore di Dio che ci amò per primo (cfr. 1Gv 4, 19). Il suo amore per noi, manifestato in Gesù supera tutto (cfr. Rom 8, 38-39).
Dio diventa fonte di sicurezza, quando cerchiamo di praticare la sua volontà. Lì Lui sarà la roccia che ci sostiene nei momenti di difficoltà e di tempesta. Come è attuale questa promessa ai giorni nostri!
Nel libro dei Salmi, spesso troviamo l’espressione:“Dio è la mia roccia e la mia fortezza… Mio Dio, roccia mia, mio rifugio, mio scudo, la forza che mi salva…” (Sal 18, 3).
Lui è la difesa e la forza di colui che cerca la giustizia (cfr. Sal 18, 21.24).
Le persone che hanno fiducia in questo Dio, diventano a loro volta, una roccia per gli altri.
Così, il profeta Isaia invita la gente in esilio dicendo: “Voi che siete in cerca di giustizia e che cercate il Signore! Guardate alla roccia da cui siete stati tagliati, alla cava da cui siete stati estratti. Guardate ad Abramo, vostro padre, e a Sara vostra madre.” (Is 51, 1-2).
Il profeta chiede alla gente di non dimenticare il passato. La gente deve ricordare che Abramo e Sara, per la loro fede in Dio, diventarono roccia, inizio del popolo di Dio. Guardando verso questa roccia, la gente doveva acquistare coraggio per lottare ed uscire dalla schiavitù.
E anche così San Matteo, nella parola letta oggi, esorta le comunità ad avere come base la stessa roccia per poter essere, così loro stessi, roccia per rafforzare i loro fratelli e sorelle nella fede.
È questo il senso del nome che Gesù dà a Pietro:“Tu sei Pietro e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa”(Mt 16, 18). Questa è la vocazione delle prime comunità, chiamate ad unirsi a Dio, pietra viva, per diventare loro stesse pietre vive, perché ascoltino e mettano in pratica la Parola (cfr. 1 Pt 2, 4-10; Ef 2, 19-22).
La comunità, costruita sul fondamento della nuova Legge del Discorso della Montagna, rimarrà in piedi nel momento della tormenta.
L’evangelista chiude il Discorso della Montagna dicendo che la moltitudine rimase ammirata dell’insegnamento di Gesù, “come uno che ha autorità, e non come gli scribi”.
Il risultato dell’insegnamento di Gesù è una coscienza più critica della gente rispetto alle autorità religiose dell’epoca.
Le sue parole semplici e chiare scaturiscono dalla sua esperienza di Dio, dalla sua vita donata al Progetto del Padre. La gente rimane ammirata ed approva l’insegnamento di Gesù.
perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati.
Perché osservi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio?
O come potrai dire al tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza dal tuo occhio, mentre nell’occhio tuo c’è la trave?
Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello.
Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi.
Matteo 7, 1-6
Siamo ormai giunti verso la fine del Discorso della Montagna.
Il brano che meditiamo oggi è ricchissimo di insegnamenti. Non siamo creati per condannare, ma per amare. Non siamo giudici, ma fratelli.
Chi ha condannato i fratelli, sarà condannato da Dio.
In questi versetti vi è la denuncia della malignità, che aguzza l’occhio a vedere i minimi difetti dei fratelli, e della fiducia orgogliosa nella propria giustizia, che non lascia vedere le nostre enormi imperfezioni. Troviamo l’ipocrisia di chi vuol far credere di combattere il male, ma lo combatte solo negli altri e non in se stesso.
Inoltre vediamo tre aspetti della vita cristiana:
. la prudenza, in altre parole il necessario discernimento nel dispensare “le cose sante”, vale a dire la Parola di Dio che esige di essere accolta da un cuore disponibile;
. la carità verso il prossimo, intesa come un amore che dona senza alcun limite, senza pensare a nessun contraccambio;
. il decidersi per il Vangelo, vale a dire per Cristo sofferente e perseguitato, guardandosi dalla falsa sicurezza e tenendo presente la terribile serietà dell’esistenza umana, la quale termina in un perdersi o in un vivere.
Spiritualmente parlando, il difetto di vista più frequente non è la miopia, ma la presbiopia.
Miopia significa vedere bene da vicino e male da lontano; presbiopia, al contrario, è vederci bene da lontano, ma male da vicino.
Colui che vede la pagliuzza nell’occhio del fratello e non vede la trave nel suo, è uno che vede lontano, ma non vede vicino. E’ un presbite. Il presbite, a volte, non riesce a leggere uno scritto anche se ha i caratteri grandi come travi e ce l’ha ad un palmo dagli occhi.
Che cosa indica la famosa pagliuzza e la famosa trave?
La pagliuzza è il peccato giudicato nel fratello, qualunque esso sia, in confronto al fatto stesso di giudicare che è la trave. Gesù denuncia qui una tendenza innata dell’uomo che i moralisti antichi hanno illustrato con la favola delle due bisacce.
Nella rielaborazione che ne fa La Fontaine, famoso scrittore di favole, dice: “Quando vieni in questa valle porta ognuno sulle spalle una duplice bisaccia. Dentro a quella che sta innanzi volentieri ognun di noi i difetti altrui vi caccia, e nell’altra mette i suoi”.
Siamo strani noi umani, possediamo occhi di lince nello scorgere i difetti del prossimo e siamo talpe cieche quando si tratta dei nostri. Dovremmo semplicemente rovesciare le cose: mettere i nostri difetti sulla bisaccia che abbiamo davanti e i difetti degli altri su quella dietro. Dopo tutto, i nostri difetti sono i soli che dipendono da noi modificare e correggere.
Ciò che avviene per pregi e difetti avviene anche per diritti e doveri. Noi poniamo il più delle volte i nostri diritti nella bisaccia davanti e i nostri doveri in quella dietro.
Viviamo, soprattutto oggi, in una società dove tutti sbandierano diritti, e nessuno sembra avere doveri.
Nel momento in cui si vuole procurare il favore di qualche settore della società, non si fa che mettergli davanti agli occhi i propri diritti, tacendogli i rispettivi doveri. Tanti conflitti sociali dipendono da qui.
Si impone, anche a questo riguardo, un bel capovolgimento di bisacce: davanti i doveri, dietro i diritti, oppure, ciò che è lo stesso: davanti i diritti degli altri, dietro i diritti nostri. Tanto, anche se sono dietro, non c’è pericolo che li trascuriamo…
In conclusione, la similitudine trave-pagliuzza, è un’immagine grottesca e paradossale, tuttavia rende evidente l’assurdità di colui che si innalza a giudice del fratello.
Chi giudica si autogiustifica (rammentate la parabola del Fariseo e del Pubblicano al Tempio?), s’illude nella propria ipocrisia, che gli maschera la profonda differenza tra la convinzione interiore e il comportamento esterno.
Soltanto una lucida autocritica è la condizione per aiutare, con senso di partecipazione e di misericordia, il fratello a correggersi.
Poveri: fiducia in Dio che apre il cuore alla preghiera
Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto;
perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto.
Chi tra di voi al figlio che gli chiede un pane darà una pietra?
O se gli chiede un pesce, darà una serpe?
Se voi dunque che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele domandano!
Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti.
Matteo 7, 7-12
Pregare vuol riconoscere che Dio è l’alfa e l’omega della nostra vita, tutto viene da Lui e tutto si compie attraverso di Lui.
Chi ha questa fede scopre la gioia di consegnare tutto nelle mani del Padre, anche e soprattutto i desideri, le ansie, le preoccupazioni.
Lo facciamo senza pretese e senza vantare diritti. A noi basta sapere che Dio ci ascolta e tutto orienta verso il bene.
Il Padre nostro sa di che cosa abbiamo bisogno. Non è importante quello che chiediamo, ma è importante Colui al quale chiediamo.
E la preghiera ha come scopo l’incontro con Dio, l’intima unione con Lui, è un mettersi sull’onda della sua paternità.
Gesù assicura che il Padre celeste risponderà, ma non dice che ci darà esattamente quello che abbiamo chiesto.
Quando accade – e spesso accade! – di non ottenere quello che abbiamo chiesto, non vuol dire che Dio non ascolti o non si prenda cura di noi, vuol dire semplicemente che vuole darci altro e in altri tempi.
Pretendere di conoscere la volontà di Dio significa metterci al posto di Dio.
La preghiera di richiesta non sarebbe autentica, se avesse qualche pretesa, anche minima.
La fiducia è l’anima della preghiera. Se non riceviamo quanto abbiamo chiesto, invece di dare spazio all’amarezza e di chiuderci nello sconforto, rinnoviamo con gioia la nostra fede e chiediamogli la grazia di accogliere con amore la sua volontà, anche se facciamo fatica a comprendere.
Non possiamo misurare la bontà di Dio con le nostre attese! Anche se le nostre intenzioni sono sempre buone, non sempre chiediamo cose buone.
Chi ha più anni sulle spalle, sa per esperienza che tante volte, sospinti dalla fretta di fare qualcosa, abbiamo compiuto scelte sbagliate.
Il silenzio di Dio è un implicito invito a cercare ancora, a guardare più lontano. Dobbiamo dunque continuare a chiedere, senza mai stancarci.
E il Padre Celeste, che ci conosce nel profondo del nostro intimo e ci ha creati, ci ascolterà e saprà darci ciò di cui abbiamo più bisogno.
Beati i poveri, liberi dalle cose per amare Dio e i fratelli
Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano;
accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano.
Perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore.
La lucerna del corpo è l’occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce;
ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!
Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e a mammona.
Matteo 6, 19-24
In questo brano Gesù ci dona due comandamenti: “Non accumulatevi tesori sulla terra… accumulatevi invece tesori nel cielo”.
L’accumulare tesori, il diventare ricco è l’aspirazione di ogni uomo. Nella ricchezza egli cerca di manifestare la sua potenza, la sua superiorità, la sua vanagloria, la sua superbia, ma soprattutto in essa cerca la sicurezza contro tutti i pericoli, compresa la morte, e la possibilità di avere tutte le soddisfazioni che il benessere economico può dare. La ricerca egoistica dei beni materiali sottrae tempo ed energie all’acquisizione dei beni del Cielo e rende l’uomo schiavo delle cose che possiede e desidera.
Ognuno deve avere qualcosa o qualcuno a cui dedicare le sue attenzioni e le sue forze. Il problema è la scelta di questo tesoro a cui attaccare il cuore. L’uomo diventa ciò che ama. Se ama le cose diventa come le cose, se ama Dio diventa come Dio.
L’uso delle cose è buono fino a quando non diventa ostacolo per seguire Cristo e amare i fratelli. Il cristiano non può essere schiavo di nulla e di nessuno perché “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi” (Gal 5, 1). Il cristiano dona l’avere per ottenere l’essere: essere come il Padre.
Il detto evangelico della lucerna del corpo ci presenta la necessità della chiarezza nell’orientamento della vita. La vera luce è Gesù (cfr. Mt 4, 16; Gv 1, 9; 8, 12; ecc.). L’occhio buono è quello che accoglie la luce della rivelazione di Gesù; l’occhio cattivo, quello che la rifiuta. L’occhio che lascia entrare questa luce immerge tutta la persona nella luce, l’occhio che non lascia entrare questa luce immerge tutta la persona nelle tenebre.
L’occhio viene presentato come il simbolo del cuore, della mente. Il cuore dell’uomo dev’essere orientato a Dio e vivere nella ricerca dei tesori del Cielo, allora tutto l’uomo è nella luce. Se invece si perde nella ricerca dei beni materiali diventa cieco e tutta la sua persona è immersa nelle tenebre.
Nella Bibbia l’occhio esprime l’orientamento spirituale della persona. L’occhio buono esprime la giusta relazione con Dio, dal quale l’uomo viene totalmente illuminato (cfr. Sal 4, 7; 36, 10). L’occhio cattivo esprime l’opposizione dello spirito dell’uomo nei confronti di Dio.
Nel vangelo di Matteo l’occhio cattivo è simbolo dell’invidia, dell’avarizia, dell’egoismo (cfr. 20, 15). L’occhio che non accoglie la luce della rivelazione di Gesù diventa ottenebrato. La tenebra totale e definitiva è la perdizione eterna.
Papa Francesco riguardo a questo passo biblico ci insegna:
“Qui è il messaggio di Gesù. Ma se il tuo tesoro è nelle ricchezze, nella vanità, nel potere, nell’orgoglio, il tuo cuore sarà incatenato lì, il tuo cuore sarà schiavo delle ricchezze, della vanità, dell’orgoglio. È quello che Gesù vuole che noi avessimo: un cuore libero. Questo è il messaggio d’oggi. Per favore, abbiate un cuore libero, ci dice Gesù. Ci parla della libertà del cuore.
E un cuore libero si può avere soltanto con i tesori del Cielo: l’amore, la pazienza, il servizio agli altri, l’adorazione a Dio. Queste sono le vere ricchezze che non vengono rubate. Le altre ricchezze appesantiscono il cuore, lo incatenano, non gli danno la libertà“.
Beati i poveri: riporre la sicurezza non nelle cose ma in Dio
Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito?
Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro?
E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita?
E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano.
Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro.
Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede?
Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?
Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno.
Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta.
Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena.
Matteo 6, 25-34
I brani di Vangelo che vi presento oggi ci aiutano a rivedere il rapporto con i beni materiali e presenta due temi di diversa portata.
Il primo brano descrive il nostro rapporto con il denaro (Mt 6, 19-24) e il secondo il nostro rapporto con la Provvidenza Divina (Mt 6, 25-34).
Gesù è molto chiaro nella sua affermazione: “Nessuno può servire due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire Dio e mammona.” Ognuno dovrà fare la propria scelta. Dovrà chiedersi: “Chi pongo al primo posto nella mia vita. Dio o il denaro?” Da questa scelta dipenderà la comprensione dei consigli che seguono sulla Provvidenza Divina (Mt 6,25-34). Non si tratta di una scelta fatta solo con la testa, bensì di una scelta di vita ben concreta che ha a che fare anche con gli atteggiamenti.
Gesù critica la preoccupazione eccessiva per il mangiare e il bere. Questa critica di Gesù causa fino ai nostri giorni molto spavento nella gente, perché la grande preoccupazione di tutti i genitori è come procurarsi cibo e vestiti per i figli. Il motivo della critica è che la vita vale più del cibo e il corpo vale più del vestito. Per chiarire la sua critica, Gesù presenta due parabole: i passeri e i fiori.
La parabola degli uccelli: la vita vale più del cibo. Gesù ordina di guardare gli uccelli. Non seminano, non raccolgono, ma hanno sempre da mangiare perché il Padre del Cielo li alimenta. “Non contate voi, forse, più di loro!”
Gesù critica il fatto che la preoccupazione per il cibo occupi tutto l’orizzonte della vita delle persone, senza lasciare spazio a sperimentare e gustare la gratuità della fraternità e dell’appartenenza al Padre. Per questo, il sistema neoliberale è criminale perché obbliga la gran maggioranza delle persone a vivere 24 ore al giorno, preoccupandosi del cibo e del vestito, e produce ad una minoranza ricca assai limitata l’ansia di comprare e consumare fino al punto da non lasciare spazio a null’altro.
Gesù dice che la vita vale più dei beni di consumo! Il sistema neoliberale impedisce di vivere il Regno.
La parabola dei gigli: il corpo vale più del vestito. Gesù chiede di guardare i fiori, i gigli del campo. Con che eleganza e bellezza Dio li veste! “Ora, se Dio veste così l’erba del campo, non farà assai più per voi, gente di poca fede!”
Gesù dice di guardare le cose della natura, perché così vedendo i fiori e il campo, la gente ricordi la missione che abbiamo: lottare per il Regno e creare una convivenza nuova che possa garantire il cibo e il vestito per tutti.
Gesù riprende e critica la preoccupazione eccessiva per il cibo, la bevanda e il vestito. E conclude: “Di queste cose si preoccupano i pagani!”
Ci deve essere una differenza nella vita di coloro che hanno fede in Gesù e di coloro che non hanno fede in Gesù. Coloro che hanno fede in Gesù condividono con Lui l’esperienza della gratuità di Dio Padre. Questa esperienza di paternità deve rivoluzionare la convivenza. Deve generare una vita comunitaria che sia fraterna, seme di una nuova società.
Gesù indica due criteri per essere suoi discepoli: “Cercare prima il Regno di Dio” e “Non preoccuparsi per il domani”.
Cercare in primo luogo il Regno e la sua giustizia significa cercare di fare la volontà di Dio e lasciare regnare Dio nella nostra vita.
La ricerca di Dio si traduce, concretamente, nella ricerca di una convivenza fraterna e giusta. Dove c’è questa preoccupazione per il Regno, nasce una vita comunitaria in cui tutti vivono da fratelli e sorelle e a nessuno manca nulla. Lì non ci si preoccuperà del domani, cioè non ci si preoccuperà di accumulare.
Cercare prima il Regno di Dio e la sua giustizia. Il Regno di Dio deve stare al centro di tutte le nostre preoccupazioni.
Il Regno richiede una convivenza, dove non ci sia accumulazione, ma condivisione in modo che tutti abbiano il necessario per vivere.
Il Regno è la nuova convivenza fraterna, in cui ogni persona si sente responsabile dell’altra. Questo modo di vedere il Regno aiuta a capire meglio le parabole dei passeri e dei gigli, perché per Gesù la Provvidenza Divina passa attraverso l’organizzazione fraterna.
Preoccuparsi del Regno e della sua giustizia è lo stesso che preoccuparsi di accettare Dio Padre ed essere fratello e sorella degli altri. Dinanzi all’impoverimento crescente causato dal neoliberalismo economico, la forma concreta che il Vangelo ci presenta e grazie alla quale i poveri potranno vivere è la solidarietà e l’organizzazione.
Un coltello affilato in mano ad un bambino può essere un’arma mortale. Un coltello affilato in mano ad una persona appesa ad una corda è l’arma che salva.
Così sono le parole di Gesù sulla Provvidenza Divina. Sarebbe antievangelico dire ad un padre disoccupato, povero, con otto figli, e moglie malata: “Non ti preoccupare del cibo e delle bevande! Perché preoccuparsi del vestito e della salute?” (cfr. Mt 6, 25.28). Questo possiamo dirlo solo quando noi stessi, imitando Gesù, ci organizziamo tra di noi per condividere, garantendo così al fratello la possibilità di sopravvivere. Altrimenti, siamo come i tre amici di Giobbe che, per difendere Dio, raccontavano menzogne sulla vita umana (Giobbe 1-3, 7). Sarebbe come ingannare un orfano e un amico (Giobbe 1-7).
In bocca al sistema dei ricchi, queste parole posso essere un’arma mortale contro i poveri. In bocca al povero, possono essere uno sbocco reale e concreto per una convivenza migliore, più giusta e fraterna.
Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli.
Quando dunque fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade per essere lodati dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa.
Quando invece tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra,
perché la tua elemosina resti segreta; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
Matteo 6, 1-4
In questi versetti Gesù ci indica la nuova pratica delle opere di pietà. Ci parla dei capisaldi della spiritualità: l’elemosina, il digiuno e la preghiera.
Essi definiscono, rispettivamente, il nostro rapporto col fratello (l’elemosina), col Padre (la preghiera) e con noi stessi e le cose (il digiuno). E sono i tre ambiti della vita dell’uomo: gli altri, l’altro, me stesso e le cose.
Guardando alcuni religiosi del tempo Gesù si accorge che la loro spiritualità è falsa per un semplice motivo: questi uomini hanno confuso il senso del loro fare. Cioè pur facendo cose buone, non le fanno per Dio, ma per se stessi, per essere lodati dagli uomini. Come si può sfruttare le logiche più gratuite della vita come la preghiera ad esempio per riceverne onori?
Gesù dunque critica coloro che fanno il bene per essere visti e ammirati dagli altri uomini.
Gesù chiede di costruire la sicurezza interiore non in ciò che noi facciamo per Dio, ma in ciò che Dio fa per noi.
Dai consigli che lui dà emerge un nuovo tipo di rapporto con Dio: “Tuo Padre, che vede nel segreto, ti ricompenserà” (Mt 6, 4). “Vostro Padre sa di cosa avete bisogno, prima che voi glielo chiediate” (Mt 6, 8). “Se perdonate agli uomini le loro colpe, anche il Padre vostro vi perdonerà” (Mt 6,14).
È un cammino nuovo, che si apre ora, per accedere al cuore di Dio Padre. Gesù non permette che la pratica della giustizia e della pietà siano usate quale mezzo di autopromozione dinanzi a Dio e dinanzi alla comunità.
Dare l’elemosina è un modo di condividere, assai raccomandato dai primi cristiani (cfr. At 2, 44-45; 4, 32-35). La persona che pratica l’elemosina e la condivisione per promuovere se stessa dinanzi agli altri, merita di essere esclusa dalla comunità, come avvenne con Anania e Safira (cfr. At 5, 1-11).
Oggi, sia nella società come pure nella Chiesa, ci sono persone che intraprendono una grande pubblicità del bene che compiono agli altri. Gesù chiede il contrario: fare il bene in modo tale che la mano sinistra non sappia ciò che fa la destra.
È il distacco totale e il dono totale nella gratuità dell’amore, che crede in Dio Padre e imita tutto ciò che fa.
Puri di cuore nella preghiera
Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa.
Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole.
Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate.
Voi dunque pregate così:
Padre nostro che sei nei cieli,
sia santificato il tuo nome;
venga il tuo regno;
sia fatta la tua volontà,
come in cielo così in terra.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano,
e rimetti a noi i nostri debiti
come noi li rimettiamo ai nostri debitori,
e non ci indurre in tentazione,
ma liberaci dal male.
Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi;
ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.
Matteo 6, 5-15
In questi versetti Gesù ci insegna come praticare la preghiera.
La preghiera pone la persona in rapporto diretto con Dio.
Alcuni farisei trasformavano la preghiera in un’occasione per mostrarsi ed esibirsi dinanzi agli altri. In quel tempo, quando suonava la trombetta nei tre momenti di preghiera, mattina, mezzogiorno e sera, loro dovevano fermarsi nel luogo dove stavano per pregare. C’era gente che cercava di stare negli angoli in luoghi pubblici, in modo che tutti vedessero che stava pregando.
Un atteggiamento di questo tipo rovina il nostro rapporto con Dio. È falso e non ha senso.
Per questo, Gesù dice che è meglio chiudersi nella stanza e pregare in segreto, mantenendo l’autenticità del rapporto. Dio ti vede anche nel segreto, e Lui ti ascolta sempre.
Il digiuno
E quando digiunate, non assumete aria malinconica come gli ipocriti, che si sfigurano la faccia per far vedere agli uomini che digiunano. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa.
Tu invece, quando digiuni, profumati la testa e lavati il volto,
perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo tuo Padre che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
Matteo 6, 16-18
In quel tempo la pratica del digiuno era accompagnata da alcuni gesti esterni ben visibili: non lavare il volto, non allisciarsi i capelli, usare vestiti sobri.
Erano segnali visibili del digiuno.
Gesù critica questa forma di digiuno e ordina di fare il contrario, così gli altri non possono rendersi conto che si sta digiunando: fatti il bagno, usa il profumo, arricciati bene i capelli.
In questo modo solo il Padre, che vede nel segreto, sa che tu stai digiunando e lui saprà ricompensarti.
Digiunare significa che la mia vita non è il cibo, bensì il mio cibo è far la volontà del Padre.
“Non di solo pane vive l’uomo ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (cfr. Deuteronomio 8, 3).
L’astensione dal pane e dal cibo in generale, diventa atteggiamento di attesa e di disponibilità ad accogliere con gusto e con appetito la Parola del Signore che ci nutre.
Quindi il primo senso del digiuno è affermare che la vita non è il cibo, ma la comunione con Dio e l’ascolto della Parola.
Se digiuniamo, il Padre ci ricompenserà dandoci la nostra identità. Proprio attraverso il digiuno, ci riconosciamo figli, come persone che ricevono la vita e che sanno che la vita è la comunione col Padre.
Quindi la ricompensa è di riconoscere noi come figli e Lui come Padre e riconoscere, nell’uso dei beni e del cibo, la vita eterna che è Lui.
Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente;
ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra;
e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello.
E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due.
Dà a chi ti domanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle.
Matteo 5, 38-42
La frase “occhio per occhio e dente per dente” riporta la legge del taglione (Es 19,15-51; 21,24; Lv 24,20), è uno dei capisaldi delle legislazioni antiche (Codice di Hammurabi e Legge delle dodici tavole). Essa doveva sostituire la legge della vendetta di sangue (Gen 4,23). Al tempo di Gesù la legge del taglione era ancora vigente, ma poteva essere sostituita con un risarcimento in denaro.
La non-violenza richiesta da Gesù non è vile rassegnazione, ma forza e intraprendenza dell’amore. La potenza dell’impotenza ha la sua più alta manifestazione in Gesù che “fu crocifisso per la sua debolezza, ma vive per la potenza di Dio” (2Cor 13,4) e poggia sulla fede che l’impotenza della croce vince il male.
Con il principio della non-violenza Gesù contrappone alla mentalità giuridica dell’Antico Testamento il nuovo ideale dell’amore. Il male perde la sua forza d’urto solo quando non trova resistenza.
La Chiesa perseguitata ha assunto questo atteggiamento comandato da Gesù: “Gli apostoli se ne andarono dal sinedrio lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù” (At 5,41).
I quattro esempi elencati da Matteo hanno lo scopo di illustrare il comandamento: “Ma io vi dico di non opporvi al malvagio”.
Lo schiaffo sulla guancia destra è particolarmente doloroso e oltraggioso perché è un manrovescio. Gesù flagellato e schiaffeggiato conferma con il suo esempio la validità del suo insegnamento (Mt 26,67; Is 50,6).
La lite giudiziaria con chi pretende la tunica come caparra o come risarcimento danni, non ha più senso per il discepolo di Gesù, anzi, egli non farà valere per sé neppure il comandamento che vietava il pignoramento del mantello del povero e il dovere di restituirglielo prima del tramonto del sole (Es 22,25; Dt 24,13): egli darà la tunica e il mantello senza opporre resistenza.
Il terzo esempio che mette il discepolo a confronto con la violenza è quello della requisizione da parte di autorità militari o statali per costringerlo a prestazioni forzate. Ne abbiamo un esempio in Mt 27,32: “Mentre uscivano, incontrarono un uomo di Cirene, chiamato Simone, e lo costrinsero a prendere su la croce di lui”.
Il miglio (= 1478,70 metri) era una misura romana e quindi richiama concretamente la dominazione dell’impero di Roma al tempo di Gesù e dell’evangelista. Quando gli saranno imposte queste prestazioni forzate, il discepolo di Gesù non deve ribellarsi o coltivare astio nel cuore, ma prestarsi liberamente e di buon animo a fare con gioia il doppio di quanto esige da lui la prepotenza del malvagio.
Il quarto esempio ci presenta i poveri e i richiedenti. Essi non sono dei nemici o dei malvagi, ma possono suscitare una reazione violenta a causa delle cattive esperienze fatte in precedenza. Leggiamo nel Libro del Siracide 29,4-10: “Molti considerano il prestito come una cosa trovata e causano fastidi a coloro che li hanno aiutati. Prima di ricevere, ognuno bacia le mani del creditore, parla con tono umile per ottenere gli averi dell’amico; ma alla scadenza cerca di guadagnare tempo, restituisce piagnistei e incolpa le circostanze. Se riesce a pagare, il creditore riceverà appena la metà e dovrà considerarla come una cosa trovata. In caso contrario il creditore sarà frodato dei suoi averi e avrà senza motivo un nuovo nemico; maledizioni e ingiurie gli restituirà, renderà insulti invece dell’onore dovuto. Tuttavia sii longanime con il misero e non fargli attendere troppo l’elemosina. Per il comandamento soccorri il povero secondo la sua necessità, non rimandarlo a mani vuote. Perdi pure denaro per un fratello e amico, non si arrugginisca inutilmente sotto una pietra”.
La motivazione del comandamento: “Dà a chi ti domanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle” sarà evidenziata nel seguito del vangelo da Gesù stesso che ci comanda la conformità con il comportamento del Padre: “Il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele domandano” (Mt 7,11).
Attraverso questi atteggiamenti i discepoli si dimostrano amici dei loro nemici e tentano di cooperare con Dio per il ravvedimento degli ingiusti e dei malvagi come ha fatto Gesù. San Paolo ha sintetizzato questo insegnamento nella lettera ai Romani (Rm 12,21): “Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male”.
Se questi princìpi e questi comportamenti entrassero nella società odierna, essa non solo non ne avrebbe un danno, ma vedrebbe migliorare i rapporti umani più di quanto possono ottenere tutti gli apparati della giustizia, della prevenzione e della repressione.
Beati i misericordiosi: amare anche chi non ci ama
Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico;
ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori,
perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti.
Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani?
E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?
Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste.
Matteo 5, 43-48
Logica stringente e scomoda, verità ineccepibile e che pure dimentichiamo: Gesù ci chiede in cosa si distingue la nostra vita da quella degli altri, dai fratelli che non credono.
Amare coloro che ci amano, ascoltare i simpatici o chi ci fa i complimenti è la cosa più semplice e istintiva che possiamo fare. Ma l’atteggiamento del discepolo va oltre: cerca ragioni e dialogo, non mette sé al centro, ma l’altro, compatisce le proprie e le altrui debolezze e fragilità.
Difficile e improponibile, se ciò viene vissuto come una specie di eroico sacrificio. Possibile, se questo diventa estensione dello stile di vita di Dio in noi.
Perciò Gesù ci chiede di imitare il Padre nel suo amare chiunque, nell’aspettare pazientemente che anche il figlio più lontano e ostinato alla fine si converta.
Apriamo il cuore alla nuova logica di Dio, oggi, con le persone antipatiche, con chi ci vuole fare le scarpe in ufficio, con dignità e verità sappiamo andare oltre l’istinto, il moto di stizza o di nervosismo; con semplicità e verità vogliamo bene, cioè auguriamo il bene a tutti coloro che incontriamo sul nostro cammino.
Un ultimo appunto: per evitare eccessi o che un cristiano si senta in dovere di essere diverso, migliore, perfetto, san Luca riporta le stesse ammonizioni, e corregge Matteo dicendo: “Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro che è nei cieli”. La perfezione di Dio non consiste in una specie di asettica e benevola superiorità, ma in un incontro tra la nostra miseria e il suo cuore, la misericordia, appunto, di chi sa guardare alla povertà con comprensione e cordialità.
Rendici misericordiosi, oggi: che la tua perfezione di amore si rifletta, un poco almeno, nell’accoglienza che sapremo dare a tutti i fratelli che oggi incontreremo, Dio benedetto nei secoli!
Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio.
Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna.
Beati gli operatori di pace: prendere l’iniziativa della riconciliazione
Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te,
lascia lì il tuo dono davanti all’altare e và prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono.
Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei per via con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia e tu venga gettato in prigione.
In verità ti dico: non uscirai di là finché tu non abbia pagato fino all’ultimo spicciolo!
Matteo 5, 21-26
In questo punto del Discorso della Montagna, Gesù introduce ogni volta una citazione dall’Antico Testamento («avete inteso che fu detto»), che riprende e commenta («e io vi dico»), per attualizzare la Legge data a Mosè e intensificarla.
Il primo comandamento affrontato è: “Non uccidere”. Per osservare pienamente questo comandamento non basta evitare l’assassinio.
In tutte le relazioni umane occorre frenare l’aggressività, spegnere la collera prima che diventi violenza, fermare la lingua che può uccidere con la parola. Prima di diventare azione, la violenza cova nel cuore umano, e a questo istinto occorre fare resistenza.
L’astenersi dalla violenza è più decisivo di un’azione di culto fatta a Dio, il quale vuole la riconciliazione tra noi fratelli prima della riconciliazione con Lui; anche perché la riconciliazione con Lui che nessuno vede è possibile solo per chi sa riconciliarsi con il fratello che ciascuno vede (cfr. 1Gv 4,20).
Eppure noi sentiamo il bisogno di scaricare il male che ci abita, dicendo poco o tanto male di qualcuno. Usiamo la parola come una pietra scagliata, dicendo: “Quello è uno stupido, uno scemo!”, e così autorizziamo chi ci ascolta a ritenere una persona da evitare colui che abbiamo definito tale. Del resto, già i rabbini dicevano che “chi odia il suo prossimo è un omicida”. Ecco dunque svelata la profondità del comandamento: “Non ucciderai”, che significa anche “Sii mite, dolce, e sarai beato” (cfr. Mt 5,5).
Beati i puri di cuore: vivere nell’amore con verità e sacrificio
Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio;
ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore.
Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geenna.
E se la tua mano destra ti è occasione di scandalo, tagliala e gettala via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geenna.
Fu pure detto: Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto di ripudio;
ma io vi dico: chiunque ripudia sua moglie, eccetto il caso di concubinato, la espone all’adulterio e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio.
Matteo 5, 27-32
Dopo la violenza viene la sessualità, materia della seconda e della terza antitesi.
Si comincia con: “Non commetterai adulterio” (Es 20,14; Dt 5,18).
Ma per Gesù questo non è sufficiente. Occorre fare i conti con il desiderio che abita il cuore umano: se infatti uno desidera il possesso, se con il suo sguardo cerca di possedere l’altro, se con la sua brama non vede più la persona, ma solo una cosa di cui impadronirsi, allora anche se non arriva a consumare il peccato è già adultero nel suo cuore.
Se si fa attenzione, qui Gesù sposta la colpa dalla donna sedotta, giudicata sempre lei come peccatrice e causa di peccato, a chi seduce e non sa resistere al desiderio.
Tutto il corpo, e soprattutto i sensi attraverso i quali viviamo le relazioni con gli altri, devono essere dominati, ordinati e anche accesi dalla potenza dell’amore, non dall’eccitazione delle passioni.
Certamente non è facile questa vigilanza e questa disciplina del cuore, ma non è possibile scindere la mente, il cuore e i sensi dalla sessualità. Proprio per questo Gesù ribadisce (e lo farà più ampiamente in Mt 19,1-9) che Dio non vuole il ripudio, l’infrazione dell’alleanza nuziale, non vuole la contraddizione alla storia d’amore sigillata nella pur faticosa avventura della vita.
Beati i puri di cuore: essere sinceri con Dio e i fratelli
Avete anche inteso che fu detto agli antichi: Non spergiurare, ma adempi con il Signore i tuoi giuramenti;
ma io vi dico: non giurate affatto: né per il cielo, perché è il trono di Dio;
né per la terra, perché è lo sgabello per i suoi piedi; né per Gerusalemme, perché è la città del gran re.
Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello.
Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno.
Matteo 5, 33-37
La quarta antitesi riguarda la verità nei rapporti tra le persone. È l’ottavo comandamento dato al Sinai: “Non dirai falsa testimonianza” (Es 20,16; Dt 5,20).
Gesù conosce bene quello che gli esseri umani vivono: incapaci di vivere la fiducia nelle relazioni reciproche, giungono a giurare, a chiamare Dio come testimone (cfr. Es 20,7; Lv 19,12; Dt 23,22).
Così avviene nel mondo, così fan tutti, ma ecco la radicalità di Gesù: “Io vi dico di non giurare mai, né per il cielo, perché è il trono di Dio, né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi, né per Gerusalemme, perché è la città del grande Re”.
Alla casistica della tradizione Gesù oppone la semplicità del linguaggio, la verità delle parole: Gesù invita alla responsabilità della parola. Il parlare di ciascuno dev’essere talmente limpido da non aver bisogno di chiamare Dio o le realtà sante a testimone di ciò che si esprime. Non sono necessari garanti della verità che si esprime, e invocare il castigo, la sanzione di Dio per ciò che si è detto come non vero o per ciò che non si è realizzato, è sbagliato. Dio non è al nostro servizio e non interviene certo a punire le nostre menzogne, almeno durante la nostra vita.
E allora quando uno dice sia “sì”, sia “sì”, e quando dice “no”, sia “no”, perché il di più viene dal Maligno”, che “è menzognero e padre della menzogna” (Gv 8,44). Nessun “cuore doppio” (Sal 12,3), nessuna possibilità di simulazione per il discepolo di Gesù, nessun tentativo di dire insieme “sì” e “no”.
Non è forse Gesù stesso “l’Amen di Dio” (cfr. Ap 3,14), il “Sì” di Dio alle sue promesse, come predica Paolo (cfr. 2Cor 1,19-20)? L’essere umano rispetto agli animali ha il privilegio della parola, ma questo mezzo così umanizzante per sé e per gli altri è uno strumento fragile… Il dominio della parola è davvero alla base della sapienza umana.
Quella di Gesù non è dunque una “nuova legge”, una “nuova morale”, ma è l’insegnamento di Dio dato a Mosè, interpretato con autorità, risalendo all’intenzione del Legislatore stesso, Dio. Solo Gesù, il Figlio di Dio, poteva fare questo.
Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini.
Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa.
Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli.
Matteo 5, 13-16
Sale e luce. Due potenti immagini che rendono l’idea di cosa dovremmo essere nel mondo.
La caratteristica principale del sale e dellaluce consiste nella loro invisibilità.
Il sale dà sapore alle cose, ma per farlo scompare alla vista. Ci si accorge della sua presenza solo quando si mangia una pietanza. Finché è riconoscibile come sale non è utile. Per esserlo deve scomparire nella sua consistenza propria e per questo cambia le cose nel loro sapore.
La fede, e la testimonianza della fede, allo stesso modo sono significative non solo quando si pongono come riconoscibili agli occhi del mondo, ma quando silenziosamente cambiano il sapore del mondo, il suo senso più profondo.
Così un medico è riconoscibile come cristiano, dalla qualità del suo essere medico. Un giardiniere, dalla cura con cui coltiva le sue piante. Una madre, dalla tenerezza con cui esercita la sua maternità.
Un cristiano ovunque si trova non può lasciare le cose uguali, le cambia, le insaporisce, le rende significative.In questo senso il cristianesimo non pianta tanto bandierine di conquista, ma ha la pazienza di trasformare le cose da dentro.
Ha ragione papa Benedetto XVI quando ha detto che il cristianesimo si propaga non per proselitismo ma per attrazione.
Allo stesso modo la luce in sé è invisibile, diventa visibile solo quando si scontra con un oggetto e lo rivela. Noi dovremmo essere quella luce che rivela le cose, i volti soprattutto della gente, la loro unicità, diversità, bellezza nascosta.
Un cristiano valorizza i dettagli, dà dignità a ciò che il mondo scarta, rende visibili gli invisibili della storia.
Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento.
In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno dalla legge, senza che tutto sia compiuto.
Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli.
Poiché io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli.
Matteo 5, 17-20
Nel Discorso della Montagna, l’evangelista Matteo raccoglie l’insegnamento morale che Gesù impartisce ai suoi discepoli, dopo aver annunciato la novità del regno di Dio.
Accogliere il regno di Dio esige un cambiamento radicale di mentalità: si tratta di scegliere un nuovo progetto di vita.
Gesù descrive questo nuovo progetto di vita, che porta a compimento le esigenze contenute nell’antico progetto di vita dei dieci comandamenti. Gesù conferma la loro validità, ma insieme li perfeziona e li riconduce all’unità dell’amore.
Non basta un osservanza esteriore dei comandamenti. Questa deve partire dall’intimo del cuore, da un amore vero per Dio e per il prossimo.
I comandamenti indicano il grado minimo di questo amore. Ma Gesù vuole che i suoi discepoli non si fermino qui. Non è sufficiente non fare del male a chi ce ne ha fatto, bisogna fargli del bene. Questo è il modo rivoluzionario di pensare e di agire di Gesù per mostrare l’Amore di Dio!
Ma i comandamenti e le parole di Gesù cadono in un cuore inclinato al male, chiuso, egoista, schiavo delle passioni: un cuore capace di stravolgere tutto, anche di trasformare in ipocrisia gli atti di culto a Dio e di amore verso il prossimo.
Ci vuole un cuore nuovo, libero e aperto. Con il suo amore obbediente fino alla morte, con la forza della sua Resurrezione e con il dono dello Spirito, Gesù dà all’uomo, che si affida a lui, questo cuore nuovo, capace di amare sull’esempio di Dio. Già il profeta Ezechiele, rivelava: “Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne” (Ez 36, 26).
Dio ci ha amato per primo, quando eravamo peccatori; dunque anche noi dobbiamo fare il primo passo verso i fratelli che ci hanno offeso o che abbiamo offeso.
Dio ama tutti, buoni e cattivi, su tutti fa sorgere il sole del suo Amore; così anche noi dobbiamo amare tutti senza distinzione.
Gesù ci ha amati fino al sacrificio di sé. “Amatevi come io vi ho amato” (Gv 15,12). È il comandamento nuovo di Gesù. Gesù ha dato la vita per noi. Dunque, conclude l’apostolo Giovanni, anche noi dobbiamo dare la vita per i nostri fratelli (cfr 1 Gv 3,16). Perché amore più grande non c’è che dare la vita per chi si ama (cfr Gv 15,13).
L’Amore di Gesù è la legge di vita del discepolo e amare come Gesù è il centro vivo del progetto di Dio.
Solo un cuore pieno di amore può comunicare amore. Nessuno dà quello che non ha. Ma il cuore dell’uomo è una cisterna vuota se egli non si apre a Dio per riempirsi del suo amore.
Il discepolo di Gesù è chiamato a non tenere per sé l’amore ricevuto da Dio. Deve manifestarlo e comunicarlo.
Il cristiano ama perché è amato da Dio. Ama ogni persona umana perché ogni persona umana è amata da Dio come un figlio. Non è possibile amare il padre senza amare il figlio. Non è possibile amare Dio senza amare il prossimo. Chi dice di amare Dio senza amare il fratello è un bugiardo (cfr 1 Gv 4,20).
Le parole del Discorso della Montagna acquistano significato soltanto in questo orizzonte di lettura. Amare il prossimo con il cuore di Dio.
L’insegnamento di Gesù nel Discorso della Montagna è un punto di riferimento costante e una guida sicura della coscienza morale del cristiano.